Interviste

Beth Hart: Heart, Tattoos and Blues

L’incontro con Beth Hart avviene in un albergo milanese di Corso Sempione, sotto l’occhio attento e premuroso di Pat Scalabrino, davvero prezioso e gentile nel suo gestire questo desiderato incontro con la cantante e del marito Scott Guetzkow, anche suo roadmanager, che si prodiga di attenzioni cercando di mettere a suo agio sia la moglie che i giornalisti.


Ritengo inutile qui fare una cronistoria della carriera di Beth Hart perché il Buscadero le ha sempre dedicato ampio spazio, in particolare dopo il suo sodalizio blues con Joe Bonamassa, e passo subito all’intervista.
Beth è aperta, sorridente, cordiale, non pare essere seccata o stanca di rispondere alle domande della stampa, che è in coda per incontrarla, in occasione del tour promozionale del suo ultimo disco, Better Than Home, che l’ha portata ad esibirsi in RAI, qui a Milano, sia alla radio che in televisione (ove ha eseguito, da sola al piano, la delicata love-ballad Mechanical Heart, dedicata al marito). Beth è una ragazza generosa e lo si vede dal fatto che non si limita ad ascoltare o parlare, ma che prende il colloquio molto seriamente, si impegna, utilizza una gestualità, quasi italiana; gesticola, ti fissa intensamente, riflette, sorride, ti prende le mani per ringraziarti di quello che stai dicendo su di lei, si alza, mima comportamenti, ti abbraccia quando ti saluta alla fine. Gran bell’incontro, proprio con un’amica ed appassionata della nostra musica.
Le consegno due numeri del Buscadero che parlano di lei e li sfoglia con attenzione, rimanendo sorpresa dai nomi e dalle foto ivi riportate; dice: “Ma questo lo conosco, questo mi piace, che belle foto…”; mi chiede se ho sentito alcuni dischi riportati nella rivista e li commenta con me, insomma si complimenta per la nostra rivista! Parliamo del suo disco, Better Than Home e le dico subito che secondo me è il suo migliore, anche considerando quelli che ha registrato con Joe Bonamassa. Ne parliamo insieme e le dico che il disco presenta due aspetti del suo songwriting: il primo più grintoso, in stile R ‘n’B, composto dalle prime quattro canzoni e da The Mood That I’m In. Le dico che la più bella è Tell Her You Belong To Me che pare un out-take degna del migliore Otis Redding. Lei mi prende le mani e mi conferma che è proprio la stessa cosa che gli hanno detto i musicisti dopo averla registrata e mi ringrazia moltissimo. Il secondo invece più intimista dove emerge alla grande la sua capacita compositiva ed esecutiva al pianoforte. Quando poi sente che alcune canzoni secondo me possono essere paragonate alle composizioni di Randy Newmann mi dice: “Davvero pensi questo? E’ il miglior complimento che io abbia mai ricevuto. Thank you so much!”.

Le chiedo se vuole commentare due delle più belle canzoni.
Tell Her You Belong To Me, è dedicata a mio padre, con cui mi sono riconciliata dopo molti anni, ed è una canzone indirizzata all’altra donna che lui aveva sposato, successivamente, dopo il divorzio da mia mamma ed è una canzone R’n’B con fiati, grintosa, in cui riaffermo il diritto di avere per me il padre. Quella dedicata alla madre, This One’s For You, è una ballad pianistica, dolce e lieve ed è un ringraziamento ad una persona cara che mi è stata vicina, e che per anni ho sopportato a fatica, quando mi telefonava preoccupandosi di me; fortunatamente ora sono maturata ed ho capito quanto è importante per me. Le due canzoni rappresentano un messaggio d’amore declinato in due versioni e mi considero fortunata (blessed, lei dice) di avere ancora tutti e due i genitori e di poter loro parlare, telefonare, incontrarli.

Ti faccio solo due nomi di artiste che sento vicine a te: Billie Holiday ed Etta James.
Billie Holiday (ne parla sempre al presente, come se fosse ancora viva) ha una classe infinita, è una bellissima donna, ha rispetto per la musica, per le liriche delle canzoni che canta, per la band che l’accompagna.

In merito alla sua cover di Strange Fruit mi dice che questa canzone la prende emotivamente.
E’ una canzone dark, cupa, ma mentre la canto mi sembra di vedere una grande luce; è quella della memoria, perché, grazie ad una canzone così, la gente, anche quella non di colore, come me, e che non ha vissuto su di sé il problema del razzismo, è obbligata a non dimenticare. Per quanto riguarda Etta James devo dire che la considero una sopravvissuta ai grandi dolori che ha subìto, lei se li è assunti su di sè, li ha sopportati, non si è mai lasciata buttare giù. Lei è sempre stata in piedi nemmeno la più forte tempesta avrebbe potuto abbatterla. Io mi considero abissalmente distante da lei. Quando Bonamassa mi ha proposto di fare un disco di cover ed è arrivato con la proposta di fareI’d Rather Go blind, gli ho detto: no, no, è impossibile! Ma poi mi ha convinto e ne sono felice.

Poi le chiedo dei Kennedy Center Honors, a Washington, in cui venne invitata nel Dicembre 2012, dall’amico Jeff Beck a salire insieme con lui sul palco per cantare una cover strepitosa proprio di I’d Rather Go Blind, (che ottenne una standing ovation, da parte di un pubblico che cercava ansiosamente sul programma il nome di questa poco conosciuta cantante).
E’ stata un’esperienza incredibile e sconvolgente, essere chiamata da Jeff Beck, che è un amico personale (con cui si è pure esibita al Crossroads Festival di Clapton, nel 2013), proprio come Bonamassa, per cantare insieme con lui sul palco di questo avvenimento che premiava la carriera di Buddy Guy. Ero sconvolta al pensiero di dover cantare davanti al Presidente Obama; avevo una paura fottuta, mi sembrava terribile, poi mi sono messa in meditazione e mi sono detta infinite volte, in fondo è solo una platea di persone venute ad ascoltare e celebrare altri artisti, e ce l’ho fatta; pensa che dopo di me si sono esibite altre due cantanti che stimo moltissimo: Tracy Chapman e Bonnie Raitt. Ti dirò di più. Nel pranzo di gala ero seduta al tavolo vicino a quello di Aretha Franklin, io non l’avevo mai incontrata e i miei commensali mi dicevano, dai vai a salutarla e stringerle la mano. Ma niente, non ce l’ho fatta, lei è troppo grande rispetto a me, è stata una delle mie fonti di ispirazione; non ne ho avuto il coraggio e sono rimasta lì seduta. Ma non basta, io ho tanto rispetto e stima nei confronti dei miei idoli che, se sapessi che Etta James è entrata in un edificio, non avrei il coraggio di entrarvi pure io, tanta è la distanza che ci separa, non sono certo al suo livello. Comunque poi nella serata mi sono rifatta perché ho potuto stringere la mano a Obama e Michelle e a Clinton e Hilary, niente male!

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