Foto © Roberto De Benedetto

In Concert

Ben Howard live a Oslo, 25/6/2024

Capitare a Oslo mentre si gira in Norvegia ed imbattersi in un concerto come questo, beh, diciamo che la voglia ti viene, specie se ti aggrada un certo tipo di cantautorato britannico. Così scopri anche che il Sentrum Scene della capitale norvegese è una splendida sala da concerti dotata di un’eccellente acustica. Apertura dei cancelli nel tardo pomeriggio, e quindi speranza di riuscire a mangiare qualcosa a fine concerto: niente da fare, il tutto finisce verso le 23 e a quell’ora ad Oslo non mangi più neanche un panino.

Lasciamo perdere gli aspetti da turista per caso. Sold out e circa 1700 spettatori per il non più giovanissimo cantante inglese, non particolarmente prolifico, avendo pubblicato cinque album in 13 anni, a partire dall’esordio, con successo, di Every Kingdom (2011), album di belle canzoni che funzionò solo da apripista ad una proposta autoriale molto più articolata in seguito, con album di assoluto spessore come il secondo (e forse più famoso) I Know Where We Were, i successivi, belli ed originali,  anche se non sempre di facile deglutizione Noonday Dream e Collections from the Whiteout (quest’ultimo in collaborazione con Aaron Dressner dei National) sino appunto all’ultimo Is It?,uscito lo scorso anno, facilmente rintracciabile sugli scaffali perché ha (purtroppo) una delle copertine più brutte che mi sia mai capitato di vedere, quasi un invito al non acquisto , eppure a sua volta disco molto degno, melodicamente e per ispirazione più fruibile dei due dischi precedenti e che dimostra ancora una volta che il seguito di Ben è meritato.

Ben Howard è un appassionato di alcuni cantautori storici della sua terra, ma se proprio dobbiamo citare un nome da nume tutelare, beh quel nome è senz’altro l’indimenticato John Martyn. Lo stesso Ben ha ammesso più volte l’influenza esercitata da Martyn sulla sua scrittura e sulle sonorità, specie quelle chitarristiche, anche nel suo caso colme di effetti e riverberi. A differenza di Martyn, molta della produzione di Ben Howard, per quanto evolutasi stilisticamente nel tempo, come si diceva, risente di toni maggiormente introspettivi: difficile trovare raggi di sole che scaldano nelle sue canzoni e se questo è accaduto, allora li ritroviamo quasi esclusivamente nell’album d’esordio e nell’ultimo Is It?.

Quest’ultimo album ha visto la luce dopo che lo stesso autore era stato colpito da due episodi ischemici, pericolosi e con alcune conseguenze che, per quanto temporanee, lo hanno spinto a riconsiderare il suo approccio alla vita e a quanto lo circonda. Serata norvegese che inizia con una giovane cantautrice svizzera, di Zurigo, il cui nome d’arte è Claire My Fair, che è stata scoperta dallo stesso Howard nel suo girovagare e che qui ci presenta alcuni brani del suo repertorio, solo voce e chitarra acustica. Si tratta di buone canzoni, vedremo se Claire è un fiore destinato a sbocciare.

Sono circa le 21 quando si presenta Ben, accompagnato dal suo gruppo (basso, batteria e tastiere) e da una calda ovazione del pubblico, e non è difficile credere che a queste latitudini la sua proposta non venga ben apprezzata. Lo diciamo subito, saranno due ore (bis inclusi) di bella musica, dove Ben spazia in modo, comunque, non omogeneo nella sua produzione. Una ventina i brani, di cui sei provengono dall’ultima fatica, e qui vale la pena di ricordare Richmond Avenue, Days of Lantana, Moonraker e Spirit. Solo due brani dal primo album, tra cui la splendida Black Flies, stesso numero di brani dall’ostico Noonday Dream, le comunque fascinose Nica Libres at Dusk e Someone in the Doorway.

Sono però le splendide Cowhurst’s Meme e Make Arrangements (scritte a quattro mani con Aaron Dressner) e la coppia I Forget Where We Were ed Evergreen (dal secondo album) a scaldare di più il cuore del pubblico. Ben è uno di poche parole, in linea con la riservatezza ed intimità che sgorga dai suoi brani, e si concede solo una battuta quando dice che non si ricorda quante volte è stato ad Oslo, e che questo non è necessariamente un cattivo segno, dando per implicito il fatto che si sia perso, a modo suo, tutte le volte che c’è stato. L’immancabile bis, con la splendida, Small Things, forse la sua canzone più amata dal pubblico (ma non dall’autore) sancisce il culmine di un concerto bello e coinvolgente. Speriamo che Howard riesca anche a passare dalle nostre parti, nei mesi a venire, sarà un’occasione ghiotta di vedere all’opera un cantautore validissimo e un po’ sottovalutato.

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