Il batterista Mickey Hart, esagerando ma non troppo, gli riconosceva di essere stato, in un certo senso, «l’intellettuale» del gruppo, di aver portato la mentalità e le competenze di un compositore classico all’interno di una rock’n’roll band «da cinque accordi». Lui stesso, d’altronde, ringraziava invece Jerry Garcia per averlo convinto a suonare il basso come se fosse una chitarra solista, aiutandolo così a sviluppare quello stile, fatto di arpeggi fragorosi, improvvisazione e virtuosismi da esecutore d’orchestra, per il quale sarebbe diventato (giustamente) famoso. E, be’, tutto questo scambio di umiltà e reciproche cortesie ci (riba)di(s)ce una cosa soltanto, e cioè che i Grateful Dead sono stati non solo un gruppo ma un’idea, un’attitudine, una grande famiglia, un «lungo e strano viaggio» della mente compiuto, come quello di Ken Kesey e dei suoi Merry Pranksters, quando l’America era ancora, a sua volta, un concetto giovane, una nazione da costruire assieme liberandola dall’ipocrisia e dal bigottismo, soprattutto un luogo da scoprire nei suoi anfratti meno conosciuti e più bizzarri.
Forse sì, di quella famiglia il bassista Phil Lesh, scomparso ieri all’età di 84 anni, dopo un decennio passato a misurarsi con varie forme di cancro e dolori articolari, era stato il membro «più colto», ma solo perché, come tanti studenti universitari della California libertaria e progressista di fine ’50, aveva sviluppato, in giovinezza, un profondo interesse per le musiche d’avanguardia, per la classica e il free-jazz. Proveniente da Berkeley, era stato studente di Luciano Berio presso l’ateneo di Oakland e amava indicare, tra le proprie influenze, la «scienza del contrappunto» istituita da Johann Sebastian Bach o, in ambito jazz, da Charlie Mingus, anche se a spingerlo al di là del mero ruolo di metronomo ritmico sin lì rivestito dal suo strumento erano poi stati Jack Casady (Jefferson Airplane), lo scozzese Jack Bruce (Cream) e persino Paul McCartney.
Il cambiamento — quello vero — c’era stato quando Lesh aveva incontrato l’allora suonatore di banjo Jerry Garcia, entrando di fatto «in famiglia», sin dai tempi dei Warlocks, per non uscire più dalla sua orbita. «Non mi è mai importato molto di quale strumento suonassi», dirà Lesh nel 2005, in occasione dell’uscita della sua travolgente autobiografia Searching For The Lost Sound: My Life With The Grateful Dead, «finché potevo starmene nel mondo della musica». Di nuovo, la famiglia, il gusto di trasformare l’avventura in mitologia personale, il caso privato di un artista dalla curiosità inesauribile pronto a farsi verità esemplare.
Come la Tahiti di Paul Gauguin o l’Abissinia di Arthur Rimbaud, gli Stati Uniti di Phil Lesh e dei Grateful Dead diventano la sede di una mitologia da costruire, il punto d’innesco dell’epopea del romanticismo individuale, la terra dove sprigionare un fuoco — la vis ignea dei latini — dal quale i giovani americani si sentivano un tempo riempiti. E infatti, nel libro dei suoi ricordi e delle sue memorie, Lesh definiva i Grateful Dead life itself, «la vita stessa», ossia «una serie di temi ricorrenti, legati da espansioni imprevedibili».
Non per caso, nel momento in cui i Dead, forzatamente, si dissolsero, Lesh mise in piedi gli Other Ones, coi quali si dedicò soprattutto alla rivisitazione dei brani del vecchio gruppo, e successivamente, dal 2009 al 2014, i Furthur, chiamati proprio come la vecchia corriera dei citati «burloni» di Kesey e anch’essi dedicati al repertorio del Morto Riconoscente (senza dimenticare tonnellate di improvvisazione). Di questi ultimi faceva parte anche il chitarrista Bob Weir, anche lui ingrediente fondamentale dei Dead, che ha ricordato Lesh per le lunghe analisi, condivise da entrambi, sulle partiture di Igor’ Stravinskij, come se nella perenne fascinazione di questi ragazzi a stelle strisce per la cultura occidentale precedente l’American way of life si potesse innestare una specie di pignoleria protestante fatta di studio, di ascetismo sonoro, di dedizione assoluta e incondizionata alla quarta musa e alla sua prerogativa di dischiudere universi.
Orfano della sua «famiglia» costituita, appunto, da Garcia, Weir, Hart e altri, Lesh non ha mai dato vita a una vera e propria «formazione alternativa», limitandosi altresì a tenere concerti, incessanti, tramite la dicitura Phil Lesh & Friends, ensemble variabile del quale hanno fatto parte, nel ruolo degli «amici» affratellati dall’incanto del perenne suonare, da un senso percepibile di gioia esecutiva «colta sul fatto» (nell’atto cioè di manifestarsi), esponenti di Phish, Black Crowes, Dawes e Little Feat, e poi Neal Casal e John Mayer, Luther Dickinson e John Medeski, Branford Marsalis e Robben Ford, Joan Osborne e Warren Haynes, Derek Trucks e Benmont Tench, John Scofield e Stanley Jordan.
Ci restano, di Lesh, non solo gli interminabili duelli con la sei corde di Garcia sulle infinite versioni di Eyes Of The World, non solo l’acquosa poesia folkie di una Box Of Rain concepita con il paroliere Robert Hunter, non solo l’orizzonte on the road della maestosa Truckin’, la simultaneità di multiple ispirazioni esplorata nelle cavalcate psichiche di Saint Stephen e The Eleven, la psichedelia gentile di Wave To The Wind o la nostalgia irreparabile di Childhood’s End. Ci resta più di tutto l’incanto della giovinezza, di quei mazzi di fiori (e combinazioni musicali) capaci di adornare anche il cranio liscio di un teschio, e la malinconia per il suo sfiorire nell’attimo stesso in cui, inafferrabile, la contempliamo.
Se n’è andato anche Phil Lesh, e proprio oggi, pensando a tutte le circostanze in cui le sue divagazioni strumentali ci sono sembrate immortali, la vita e i suoi cantori appaiono, davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie, come se fossero tutti parte di un unico sogno, «sognato un pomeriggio di tanto tempo fa».