Sono mesi che non butta giù una goccia d’acqua e proprio la sera del 28 giugno sono invece previsti temporali e nubifragi, cosa che fa sorgere il dubbio che i concerti previsti possano essere cancellati. Ma ormai manco delle previsioni del tempo ci si può più fidare e, aldilà di qualche sporadica goccia e di un po’ di vento a rendere meno torrida la temperatura, nessuna delle nefaste previsioni si è avverata. Considerazioni da frequentatore di concerti, ovviamente, perché la realtà è che un (bel) po’ di pioggia in realtà ci vorrebbe, a spezzare una siccità che di queste proporzioni non se ne ha proprio ricordo da ste parti.
La serata al Magnolia inizia presto stavolta, visto che il programma è ricco, con ben quattro band chiamate ad esibirsi, tra l’altro neppure scelte a casaccio, ma piuttosto accostate con un certo criterio, anche se tre sono italiane e l’ultima, i veri protagonisti, canadese. La parola d’ordine sembra essere contaminazione ed è sotto queste insegna che le varie performance si susseguono.
Il primo in ordine di tempo, Memento, in realtà me lo perdo. Intercetto giusto le ultimissime battute, troppo poco per poter dare anche un vago giudizio, tanto più che il cantautore it-pop di Brugherio deve aver suonato quasi solo per se stesso, vista la pochissima gente presente quando arrivo.
Per qualcuno in più suonano gli abruzzesi Tangram, una partecipazione all’edizione 2021 di X Factor per loro e un disco d’esordio uscito a novembre dello scorso anno che ha raccolto buoni plausi critici. Il loro groovato funk pop non è proprio la mia tazza di tè, ma la band ha una buona presenza scenica, si dona come se si trovasse di fronte a una platea stracolma di gente e, sebbene nelle pose e negli atteggiamenti questo li renda piuttosto artefatti, quantomeno garantisce una performance professionale e a tratti anche coinvolgente, specie quando rallentano sfiorando il soul.
Di maggior spessore i milanesi Studio Murena, un segreto ancora troppo ben riposto, specie in rapporto alle loro potenzialità e al loro valore. Li avevo visti già qualche anno fa quando ancora erano una band strumentale innamorata del jazz contaminato con stilemi rock. Con l’ingresso in pianta stabile del rapper Carma, l’originalità della band è ulteriormente cresciuta e oggi la loro mistura di hip hop Old School e jazz è specchio di un suono che a livello mondiale conta moltissimi esponenti e di cui loro propongono una versione italiana assolutamente credibile e convincente. Sono solo all’inizio del percorso, ma credo che un po’ alla volta riusciranno, come già stanno facendo, a conquistarsi un pubblico destinato a diventare sempre più numeroso. Chi era qui stasera, ha dato segno di gradire non poco.
E arriviamo a quelli che erano i veri titolari della serata, ovvero i BadBadNotGood, da non moltissimo tornati con un nuovo album, il loro quinto, intitolato Talk Memory e probabilmente uno dei più convincenti in circolazione nel mostrare una via contemporanea al jazz rock. Proprio sui pezzi del nuovo album si basa fortemente la performance di stasera, suonati come se ci si trovasse di fronte ad un unico flusso sonoro in cui perdersi. Aiuta il fatto che suonano al buio, praticamente illuminati soltanto dalle immagini proiettate da un super 8 a pellicola (un po’ nello stesso stile di quanto fatto da altri famosi canadesi, i Godspeed You! Black Emperor), raffiguranti paesaggi desertici, i grattaceli di una metropoli, distese oceaniche e cose così, un modo evocativo per farci immergere nelle atmosfere delle loro partiture strumentali, spostando l’attenzione da quello che è il mero gesto tecnico (che nel loro caso è d’altissimo livello) alla musica stessa.
Stupefacente la sezione ritmica, guidata da quel motore inarrestabile chiamato Alexander Sowinski (anche colui che tenta la maggior interazione col pubblico, devo dire a tratti un po’ a sproposito, interrompendo in parte la magia della musica) e dalle linee di basso precise di Chester Hansen, ma notevolissimi anche gli arabeschi disegnati alle tastiere da Felix Fox, valido sostituto di quel Matthew Tavares che ha ormai abbandonato la band, e soprattutto gli interventi solisti di un Leland Whitty incisivo sia quando soffia dentro il sax, che quando imbraccia una ficcante sei corde elettrica. Dal vivo il suono della band sembra sia lasciare esplodere la potenza intrinseca delle loro composizioni, sia dare spazio a una maggiore spinta improvvisativa, mantenendo costante la tensione tra la componente rock progressiva e quella più eminentemente jazzistica, la quale spesso è parsa prendere il sopravvento. Ottimo show, forse più di testa che di pancia, che alla fine è riuscito a radunare un pubblico entusiasta e anche piuttosto numeroso (circa 800 paganti, non poco visto il tenore raffinato della proposta e la sovrabbondanza d’offerta concertistica), fortunatamente anche molto giovane.