All’indomani di un tour europeo organizzato per promuovere l’uscita del nuovo, già pronto Between The Moon & The Midwest, si è all’improvviso ritrovato senza un’etichetta e con un disco la cui pubblicazione è a questo punto incerta.
Ma Austin Lucas, arrivato nel vecchio continente con l’amico e collaboratore Aaron Persinger, non si è perso d’animo e ha continuato a portare in giro i suoi personaggi, le sue storie e le sue canzoni, dimostrando una volta di più come, al netto di ogni forma di romanticismo, la vita di un musicista sia fatta soprattutto di duro lavoro e incrollabile determinazione.
«Non ho mai pensato che spostarmi avesse un significato particolare al di là del cambio di indirizzo. Né che farlo continuando a esibirsi fosse particolarmente faticoso. È solo lavoro. È il mio lavoro»: e se lo dice Austin Lucas, nativo di Bloomington, Indiana, in meno di vent’anni spostatosi tra Ohio, Oregon, Florida, Tennessee, California e persino Repubblica Ceca (ha vissuto cinque anni a Praga, e rimpiange il trasporto pubblico), dobbiamo credergli e mettere da parte almeno per un momento la retorica sul busker in perenne viaggio verso l’ispirazione, magari per fare i conti con le necessità della vita e l’istintiva irrequietezza dell’individuo. La pensa allo stesso modo Aaron Persinger, anche lui proveniente dall’Indiana (dalla contea di Brown, mentre Lucas viene dalla contea di Monroe), un passato da songwriter scritturato dalla divisione country della RCA e, dopo la militanza nella Reverend Payton’s Big Damn Band (gruppo country-blues esercitato al rimescolamento di folklore e trasgressione), un presente da solista intento a rodarsi tra coffeehouse e piccoli club: «Il mio primo concerto retribuito è stato in Wyoming, in un bar. Avevo 19 anni. Poi ho fatto il pescatore in Alaska, dal 2000 il compositore, a Nashville, ed è stato naturale… Ora, con la famiglia e i bambini, non potrei più farlo. Certo, per gli americani il movimento fa parte del dna. È vissuto in maniera forse meno traumatica».
Cresciuto in una famiglia di musicisti dove il padre, Bob, era solito collaborare con membri dei New Grass Revival (ha scritto diverse canzoni per John Cowan, senza dimenticare quelle per Alison Krauss), Lucas è stato messo in guardia fin da piccolo riguardo alla dimensione tutt’altro che idilliaca della vita da musicista: «Mio padre ha tentato di dissuadermi fin dall’inizio. Poi, quando sono andato in tour con Chuck Ragan e lui mi ha accompagnato, allora ha accettato l’idea di vedermi diventare un musicista a tempo pieno. Oggi capisco la sua prospettiva. Mentirei a me stesso se descrivessi la mia carriera come una sequenza di rose e fiori. L’anno scorso, dopo l’uscita di Stay Reckless [il settimo e per ora ultimo album di un percorso iniziato nel 2006, ndr], sono stato davvero sul punto di mollare. Mi sentivo depresso e privo di motivazioni. Ho anche pensato di tornare a scuola e trovarmi un lavoro diverso. Non ne potevo più della routine composta dalla pubblicazione di un disco ogni anno o due, con conseguente, massacrante tour in cui coprire all’incirca le spese. Ma pensandoci bene, ho realizzato di essere una persona estremamente fortunata, perché una carriera, tutto sommato, la avevo. E ce l’ho: essere qui in Italia, a Modena [l’intervista si è svolta nei locali del vignolese Stones Cafè, ndr], è un’opportunità per la quale molti colleghi farebbero carte false. Perciò non posso fare altro se non onorare queste occasioni lavorando sodo e girando il più possibile».
Lucas usa l’espressione to tour hard, come se il dannarsi tra un palco e l’altro tra Europa e Stati Uniti fosse una parte imprescindibile della propria attività: «È l’aspetto più importante. Nonostante la sua iniziale contrarietà, mio padre mi ha sempre detto, “prendi il furgone e vai”. A un certo punto capisci che non è soltanto questione di “prendere il furgone”, hai bisogno di infrastrutture e persone fidate intorno a te, persone a cui importa. Detto questo, il peso dell’esperienza, il confronto con le diverse realtà, resta insostituibile». L’artista parla anche di etichette e manager, quindi gli chiedo come vada con la New West, la label presso cui Stay Reckless ha visto la luce, apprendendo con stupore di come Lucas non appartenga più alla loro scuderia: «Non è stato un problema di vendite, o di soddisfazione relativa all’album. Hanno cambiato presidente, e i piani del nuovo manager non includevano una lunga lista di nomi, tra i quali il mio. Ora sono senza etichetta. Il mio nuovo lavoro sarebbe dovuto uscire la settimana scorsa: si intitola Between The Moon & The Midwest, è una specie di concept-album su tre ragazzi dell’Indiana talmente legati, tra loro, da rovinarsi reciprocamente la vita senza rendersene conto. Non so cosa fare, perché anche se il disco è finito, e ne vado fiero, dovrei ricomprarlo dalla New West, che non intende darlo alle stampe comunque, e dopo spendere altri soldi per stamparlo e distribuirlo. Ma sai che ti dico? Meglio così. Immagino di non essere più un artista adatto a loro, quindi loro non sono più l’etichetta adatta a me». «Non c’è altro modo per vedere la questione», interviene Persinger. «Per artisti come noi, abituati a pagare le bollette attraverso i concerti, l’unica possibilità è quella di farci un culo così».
Parlando invece di influenze, non sorprende che Persinger, rappresentante di una canzone d’autore molto classica e radicata nel folk-rock degli anni ’70, citi John Prine, Townes Van Zandt, Neil Young e diversi compositori del songbook americano tra le due guerre. Lucas, invece, com’è forse normale per un musicista la cui notorietà è legata all’intreccio di consuetudini folk e virulenza punk, resta legato agli amori di una gioventù trascorsa ascoltando metal e punk-rock [il nostro ha anche capitanato un gruppo crust-metal, i Guided Cradle, ndr]. D’altronde Lucas, definito spesso «un incrocio tra Bill Monroe e i Sex Pistols», si è fatto un nome, seppur piccolo, inserendosi con personalità in quel filone di artisti inclini a confondere gli steccati tra country e punk, attitudine secondo lui incarnata al meglio dai Lucero di Ben Nichols. Nel caso di Austin Lucas, tuttavia, alla versatilità e all’energia si unisce un pickin’ assai peculiare delle corde della chitarra – una Martin HD-28 – mutuato da ripetuti ascolti delle opere di Doc Watson. «Gli X sono ancora la mia band preferita di tutti i tempi. Under The Big Black Sun e Wild Gift i dischi che mi porterei ovunque. Ho due tatuaggi dedicati agli X! E se penso a qualcuno da cui vorrei farmi produrre penso a John Doe, non lo dico solo come fan. Ora come ora penso il più grande songwriter in attività sia il texano John Moreland, il suo nuovo album, High On Tulsa Heat, è una bomba». «Il disco da cui non mi separerei mai è il Live At The Philharmonic di Kris Kristofferson, registrato nel ’72 ma pubblicato vent’anni dopo», dice Persinger. «C’è tutto: il feedback, la professionalità, le canzoni, un’assurda apparizione di Willie Nelson… tutto quello che adoro nella musica». «Per me un autore di canzoni deve saper trattare gli argomenti più oscuri e scabrosi», spiega Lucas. «Come facevano Exene Cervenka e John Doe, senza farti sentire schiacciato o soffocato, ma trascinandoti fuori da casa, facendoti venire voglia di uscire per gridare la tua rabbia e il tuo disagio. Joey Kneiser dei Glossary è bravissimo nel farlo». «In ogni caso», conclude saggiamente Persinger, «hanno tutti imparato a farlo da John Prine. A mettere insieme stati d’animo lontanissimi per usarli in senso narrativo, voglio dire».
Poi, inevitabile, arriva il momento di parlare del concittadino John Mellencamp, la cui ombra si allunga su molti pezzi di Austin Lucas e in particolare nel delicato ritratto di un’adolescenza di provincia contenuto in Small Town Heart: «Crescere in un contesto simile, vicino ai boschi, in un paesino dove tutti conoscono tutti, non può non esercitare un influsso evidente. John Mellencamp è il mio fottuto eroe, è l’unico che sia riuscito a trasformare la solitudine e i tratti umani del posto da cui provengo in canzoni in grado di parlare a così tante persone. Se potessi suonare con lui sarei felice quanto lo sono stati i Gaslight Anthem quando hanno suonato con Bruce Springsteen». Alla domanda su quali siano altri personaggi fondamentali per lo sviluppo dei rispettivi stili, Persinger si mantiene sui classici (Gram Parsons, Byrds, Grateful Dead); Lucas, al contrario, mette assieme cose agli antipodi (Lucero, Louvin Brothers, gli amici Drag The River, Waylon Jennings, George Strait, Beatles, Hank Williams e un gruppo metal del Midwest, i disciolti His Hero Is Gone). Su una cosa, però, sono entrambi d’accordo: l’industria discografica sta collassando su se stessa. «Non è solo una questione di spese», spiega Persinger. «Anche se pensare a quanto le etichette investivano anni fa, per esempio nei billboard [i cartelloni pubblicitari, spesso sagomati e montati su alti edifici, con cui si annunciava l’uscita di un disco o l’inaugurazione di un tour, ndr], fa capire quanto la situazione, oggi, sia invece compromessa. È che non sanno più cosa fare. Dovrebbero conoscere la musica, capire la proposta degli artisti, mentre per anni, finché le cose andavano bene, non se ne sono occupati affatto». «Si, ma forse per i musicisti indipendenti è una cosa positiva», dice Lucas. «Le major si ristruttureranno, le etichette indie diversificheranno la loro proposta e il mercato, frammentandosi, non potrà non aprirsi a stimoli diversi. Già oggi la maggior parte del mio guadagno deriva dalle vendite del banchetto del merchandising, durante i concerti (e nessuno ha la preparazione e la propensione all’acquisto degli scandinavi!). Maggiori le occasioni di far circolare le mie cose, maggiore il tornaconto per me. Guarda la rinascita del vinile: è un segnale del fatto che le persone, anche giovanissime, sono ancora disposte a investire nella musica come bene duraturo. Io ho sempre voluto i miei dischi in vinile, e un tempo gli stabilimenti di stampa me li mandavano in due settimane. Adesso hanno così tante richieste da metterci quattro mesi. Il punto, come mi dissero dei giornalisti tutt’altro che interessati alla mia musica quando suonai al Country Throwdown di Willie Nelson, è che se non appartieni a una scena, nello specifico quella di Nashville, non otterrai alcun airplay radiofonico, e se non vieni programmato dalle radio non sei nessuno. Allora, siccome non sono in effetti nessuno, l’unica cosa che posso fare è farmi il mazzo tutte le sere (“work my ass off”). È quello che io e Aaron abbiamo intenzione di fare una volta saliti sul palco. Farci il mazzo suonando. Noi suoniamo. È il nostro mestiere».