È la spianata di cemento della zona Cargo 1 della Fiera di Rho ad accogliere gli Arcade Fire per la celebrazione dei vent’anni di Funeral, loro esordio in lungo e tra i pochi veri grandi classici rock del Terzo Millennio, come tale già soggetto alla più tipica delle “operazioni nostalgia”. Non una cosa di cui dolersi però, perché, e la serata lo dimostrerà, le canzoni di Funeral hanno una forza evocativa micidiale ancora oggi e riviverne ciascun passaggio, pertecipando a questo rituale catartico, è una di quelle cose a cui difficilmente si può rinunciare.
Per quanto di fatto ci si ritrovi in un parcheggio dell’area fieristica e a bordo autostrada, devo dire che la location è abbastanza accogliente, con pure una piccola area relax e i soliti stand dove bere e mangiare, purtroppo utilizzando gli odiatissimi token, non solo carissimi, ma fatti in modo che te ne rimangano sempre in tasca a fine serata. Una ruota panoramica, che nel nostro immaginario fa sempre un po’ Coney Island, si staglia sul lato opposto del palco e vigila sul pubblico che nel frattempo arriva.
Apre la serata Levante, cantautrice siciliana che mentirei se affermassi di conoscerne la musica. Lei ha una bella voce, una buona presenza sul palco e delle discrete canzoni pop in italiano. La band alle sue spalle appare solida, ma non mi sembra andare troppo oltre il mettersi al servizio delle melodie, a volte dalle radici più cantautorali, in qualche episodio più al servizio di un modernismo pop più marcato. Prendete tutto ciò più come note di colore che altro, però, visto che una disamina approfondita davvero non posso farla, anche perché, devo ammetterlo, non che segua troppo questo tipo di proposte.
Dopodiché, cala un sipario rosso e le casse iniziano a mandare una selezione di canzoni e brani italiani, presumibilmente scelti dagli Arcade Fire stessi, nella quale si passa da Celentano a Morricone, da Mina a Tenco e Lauzi, insomma il gotha della nostra canzone più classica. Quando il tendone si apre, dietro alla band c’è un grande schermo con una cornice dorata, al cui interno appare una foresta in fiamme, mentre un quartetto d’archi tutto composto da ragazze accompagna con fare cameristico l’ingresso della band sulle note di Vampire/Forest Fire. In primo piano, davanti a tutto, un grosso incensiere, in alto invece una mirror ball, che però sarà protagonista soprattutto nella seconda parte di show.
Ora, infatti, siamo al centro della celebrazione funeraria, una celebrazione gotica eppure coloratissima, visivamente sempre molto accattivante, non solo perché sul palco sono in tanti a muoversi e suonare, ma soprattutto perché l’elemento teatrale della performance non è qui nulla affatto secondario, visto l’utilizzo di bellissimi visuals (che spesso si rifanno all’artwork classico dell’album) e riprese live in bianco e nero, ma anche di pirotecniche piogge di coriandoli in più punti dello show.
Protagonista assoluta è la musica però, con le canzoni di Funeral a susseguirsi una via l’altra in versioni palpitanti e incandescenti, ancora più emozionanti, per chi scrive, perché servite attraverso un suono saturo e anche un po’ sporco, con le chitarre ad andare in feedback, i ritmi che incalzano, le voci che diventano cori destinati a rinsaldare cuori in tempesta, a diradare quella disperazione che covava sotto già vent’anni fa e che solo la potenza adrenalinica di un suono che più umano non si può, può dissipare.
Win Butler e Régine Chassagne sono i maestri di cerimonia di questo rituale catartico. Come sempre, spesso i vari membri della band si scambiano ruoli e strumenti, dando vita a una performance dinamica e adrenalinica, anche se un po’ meno permeata di follia anarchica rispetto alle altre volte in cui li avevo visti (molto meno imprevedibile del solito Richard Perry, col suo ruolo preso dal nuovo Paul Beabrun, certamente esagitato, ma forse un po’ più costruito).
Direi inutile citare una canzone piuttosto che un’altra: Funeral è un blocco unico di emozione scintillante, come si accennava uno degli ultimi veri classici, una lunga preghiera fatta apposta per essere officiata in una celebrazione corale appassionata. Il sipario si chiude, la catarsi è completa, si aspetta il momento della rinascita. Che ovviamente arriva col secondo set, giustamente in larga parte del tutto diverso dal primo. Aperta dal recitato dell’attrice Sarah De Scisciolo, la quale ha letto i versi della sua poesia “La dote dell’uomo”, nella seconda parte gli Arcade Fire lasciano volare via i toni funerei per far esplodere i colori luccicanti di una grande pista da ballo.
La sequenza Age Of Anxiety II (Rabbit Hole), Creature Comfort, Reflektor e Afterlife induce allo sgambettamento, muovandosi sul confine tra pulsante rock moderno ed electro-pop e scatenando la componente più vitalistica della loro musica. Forse è tutta un’apparenza, ed è un’intensissma e sofferta My Body Ias A Cage a ricordarcelo, con fari di luce a mimare le sbarre di una gabbia, prima del finale nuovamente ritmato e in fondo scanzonato della tripletta The Suburbs, Sprawl II (Mountains Beyond Mountains), Everything Now, che tutto chiude in festa.
Non proprio tutto, a dire il vero, perché il pubblico parte spontaneamente col coro di Wake Up e Win, Régine, Perry e Beabrun si attardano ad accompagnarlo con un improvvisato accompagnamento unplugged, per quello che risulta essere un ennesimo abbraccio tra loro e i loro fan. Sfumate le ultime note, quella tempesta che aveva minacciato di scatenarsi durante tutto lo show attraverso lampi nel cielo, infine esplode e una torrenziale pioggia arriva a lavare via quei fantasmi che avevano aleggiato per tutta la serata.