È con lo sguardo rivolto al cielo che ci si avvicina alla Triennale di Milano. Fuori dai giardini si vedono alcuni alberi caduti nei giorni precedenti a causa di un maltempo che pare continui a ritardare l’arrivo di una vera estate, e i nuvoloni minacciosi che si addensano sopra di noi incutono non poco timore. In realtà, sebbene a qualche decina di chilometri si stia scatenando il solito acquazzone torrenziale, il capoluogo lombardo stasera viene risparmiato e il previsto concerto degli scozzesi Arab Strap può avere tranquillamente luogo.
Del resto, sarebbe stato davvero un peccato dovervi rinunciare, perché non è proprio difficile identificare il loro nuovo I’m Totally Fine With It, I Don’t Give A Fuck Anymore come uno dei loro dischi più riusciti, nonché come un attestato di salute artistica forse non così facilmente preventivabile quando, qualche anno fa, Aidan Moffat e Malcolm Middleton hanno ridato vita alla loro creatura, non solo sui palchi, come fatto inizialmente, ma anche pubblicando nuovi lavori, tutt’altro che nostalgici.
Reduci da un tour acustico nel quale hanno omaggiato uno dei loro lavori storici, il capolavoro Philophobia, gli Arab Strap col nuovo album hanno pubblicato un lavoro arrabbiato, duro e caratterizzato da tematiche sociali, che la sua incazzatura la mostra anche a livello sonoro, come palesato da quella Allatonceness scelta per aprire il disco, così come la scaletta di stasera. Moffat è come sempre in camicia scura e pantaloncini, con quell’approccio da anti divo totale, che non manca però di mettere in mostra un certo carisma, oserei dire naturale. Middleton, maglietta degli Slift, cappello con visiera che gli nasconde il volto, mantiene invece il suo apparente profilo basso, non evidenziando nessun segno distintivo rispetto agli altri musicisti con cui i due si accompagnano in questa tornata di concerti, ossia un tastierista/chitarrista, un bassista e un batterista.
Devo dire che mi sarei aspettato un pubblico maggiore, ma si sa come funziona Milano nel weekend, la città un po’ si svuota e la minaccia del maltempo non è improbabile che abbia sconvinto qualcuno che l’intenzione di venire ce l’aveva. Ad ogni modo, qualche centinaio di persone c’era e non credo si siano pentite di aver sfidato le intemperie per godere di un concerto che si è rivelato alla fine a dir poco ottimo.
Il suono che arriva dal palco è pieno e potente e Moffat, anche nei pezzi che in origine erano orientati più a uno spoken word che al cantato, ha modulato la sua ugola nel suo modo ormai riconoscibile ed efficace, lamentandosi solo del fumo diffuso sul palco, tanto da chiedere a un certo punto di non mandarlo più perché gli irritava la gola.
Tutta la prima parte dello show è dedicata ai pezzi del nuovo disco, tutt’al più inframmezzati da qualche apparizione di brani provenienti dal precedente As Days Get Dark, approccio lodevole che riflette non solo la bontà di questo materiale e quanto loro credano in esso, ma anche tutte le sfumature di un sound ormai lontano dal minimalismo succinto col quale venivano identificati agli inizi. Il pulsare electro di un pezzo come Bliss, così come l’oscurità sposata a passaggi melodici memorabili di pezzi come Sociometer Blues o Strawberry Moon, sono esempi perfetti di quello che la band oggi rappresenta e, sparate dalle casse a volume adeguato, in veste live accrescono la loro forza.
È chiaro, poi, che alcuni dei momenti più emozionanti vengano da alcuni brani vecchi, non foss’altro che per via della rilettura che ne viene fatta, vedi una New Birds dalla potente e magnetica coda strumentale di sapore mogweiano (durante la quale Moffat se ne va’ dal palco, tra l’altro inciampando e rischiando di cadere, probabilmente per fare un salto in bagno, visti i risolini e gli sguardi che gli altri della band si scambiavano quando è tornato), oppure una direi inaspettata Pijamas a dir poco spettacolare, fusa a una rumoristica Girls Of Summer che, con una You’re Not There da manuale, hanno segnato alcuni dei momenti topici di un concerto senza dubbio da ricordare. Peccato davvero per chi non c’era.