Erano due serate assolutamente da non perdere quelle del 12 e 13 giugno nel giardino della Triennale di Milano, visto che sfilavano uno via l’altro due dei maggiori esponenti del songwriting contemporaneo, Angel Olsen in solo e, il giorno dopo, Kevin Morby con la sua band. Entrambi mancavano dall’Italia da prima della pandemia, del tutto casualmente entrambi dal 2018, un periodo di tempo nel quale Olsen ha pubblicato tre album e qualche EP e lo stesso ha fatto Morby, con l’ulteriore aggiunta di live, album di outtakes, una colonna sonora.
Diversissime le due performance. Angel Olsen ha optato per un’esibizione intima e raccolta, solo voce e chitarra. Come sia lei che il suo attuale compagno, il cantautore di Los Angeles Maxim Ludwig, che ha aperto la serata col suo set all’insegna del roots rock, diciamo sommariamente springsteeniano (o forse ancor più mellencampiano, comunque a primo ascolto fin troppo nei ranghi per farsi notare veramente), hanno più volte ribadito, di fatto si trovavano in vacanza dalle nostre parti e hanno pensato di coronarla con quattro concerti in solo, unicamente qui in Italia. Se era un modo per pagarsi la vacanza, indubbiamente una genialata, sta di fatto che è stata l’occasione per riascoltare la musica della cantautrice nella sua forma più basica, priva dei sontuosi arrangiamenti sia pop che classic messi in mostra dai suoi ultimi lavori.
Nelle loro versioni nude e crude, le canzoni di Angel appaiono ammantate di un classicismo spettrale per il sottoscritto particolarmente affascinante. Ascoltarle con la band è chiaramente un’altra cosa, ma le sue sono canzoni che riescono a comunicare emozione anche in questa veste spoglia, alla fine tutte basate sulla grana della sua voce, visto che dal punto di vista strumentale sono tutte caratterizzate da due/tre rudimentali accordi, giusto il minimo indispensabile ad evocare l’epoca d’oro del country più intimista e raccolto, il vero luogo nel quale risiedono le radici della sua musica.
Ha attinto da un po’ tutte le fasi della sua carriera, recuperando la vecchissima Some Things Cosmic dal suo primo EP del 2010, un’epoca in cui la sua carriera era appena agli albori e ancora girava come membro della band di Bonnie Prince Billy, così come alcuni capitoli dell’ultimo, splendido Big Time (Ghost On, This Is How It Works, Through The Fires) o del recente EP Forever Means (del quale ha suonato proprio la titletrack), ma ha proposto anche una canzone nuova che non avete mai sentito o la sua ormai classica versione de Il Cielo In Una Stanza, cantata in un più che buon italiano e sulla quale è poi scoppiata in una risata emozionata. Una serata che è stato un bel regalo ai suoi fan, che difatti non hanno mancato di riempire il bel giardino della Triennale. Magari un po’ di più dell’ora che ha suonato ci sarebbe stata, ma così è.
Più rovente e all’insegna del rock’n’roll la serata con protagonista Kevin Morby. Il musicista americano è da più di un anno in giro a portare le canzoni del suo ultimo, straordinario This Is A Photograph e i suoi concerti sono rodatissimi, portati avanti da una band affiatata e oliatissima, sia pur in parte diversa da quella che m’era capitato di vedere all’End Of The Road l’anno scorso. Sono confermati il chitarrista Cyrus Gengras, il bassista Liam Kazar e Cochemea Gastelum a sax e flauto traverso, mentre alla batteria ora siede Erik Slick, alle tastiere Dave “Moose” Sherman e a violino e cori c’è Macie Stewart.
Quest’ultima, metà dei bravissimi Ohmme, ma titolare anche di un paio di dischi solisti, l’ultimo dei quali uscito a settembre del 2021, è qui chiamata ad aprire la serata. Sorridente, bella voce ed attitudine, le sue sono sembrate canzoni ben costruite e capaci di non scivolare via incolori, sia pur appartenenti all’affollatissimo mondo indie-folk. In mezzo ai suoi pezzi, ha pure eseguito una tutto sommato fedele cover di Moving di Kate Bush, a rendere ancora più stuzzicante la sua proposta. Pur essendo fan degli Ohmme, non ero a conoscenza dei suoi dischi da sola, varrà la pena approfondire.
È invece con il tiro e gli intrecci di chitarre di This Is A Photograph che inizia il concerto di Morby, alla sua seconda volta qui in Triennale, visto che c’era già stato ai tempi di City Music. Elogia il posto e chiede agli spettatori quanti fossero presenti anche la prima volta, ridendo del fatto che sono solo una dozzina le mani che si alzano. Come si diceva, notevole è l’amalgama creato dalla band, capace di dare forma alle ottime canzoni del cantautore, le quali perfettamente oscillano tra pezzi più stringati e diretti come Wander o Dorothy, ballate come la bellissima Bittersweet, Tennessee, dove Stewart interpreta perfettamente il ruolo che era di Erin Rae, e pezzi in cui folk e rock magicamente s’incontrano come I Have Been To The Mountain, la splendida Beautiful Strangers o l’ipnotica e oscura No Halo.
I pezzi si accavallano l’un l’altro quasi senza pause, Morby sembra preda di un’urgenza bruciante che si stempera appena nelle ballate o nei pezzi più dilatati, tra gli highlights del concerto, vedi una City Music avviluppante che qui diventa scherzosamente Milano Music o una clamorosa Harlem River, che tutto chiude tra esplosioni di furia elettrica e squarci psichedelici.
Concerto bellissimo, che ha dato spazio anche a un paio di estratti dalla recente collezioni di outtakes di This Is A Photograph da poco pubblicata, al momento solo in digitale, intitolata More Photographs (A Continuum).