Iniziò a suonare nei caffè e nei bar a nord dell’Inghilterra, dedicandosi al blues acustico e al folk tradizionale. Ma il suo gustoso fingerpicking diventò ben presto spaventosamente efficace sulle corde della sua chitarra elettrica, dando vita a un debordante blues fatto di rock e soul e a una musica che durante gli anni è cresciuta insieme a lui. Alex Haynes, from Sheffield, sabato sera al teatro Duse di Besozzo ha esibito tutto il suo talento, snocciolando abilità e passione e una presenza scenica da grande veterano. Se difatti un palco da teatro, a mio avviso, non rende autentica giustizia alla sua scuola da locale infervorato di periferia (si parlava di un’esibizione all’ex fabbrica Sonnino, scenografia ideale x la macchina da guerra che è il ragazzo), il poco lord inglese si difende egregiamente anche in una situazione che non proprio arriva a temperature alte. Lo avvertono all’istante, i suoi compagni d’avventura, e per scaldarsi ci vuole qualche brano, ma i The Fever non tardano a portare su di livello ogni aspettativa.
L’apertura è lasciata a Luca Sigismondi, abruzzese, che presenta il suo ultimo progetto indie-folk. Dal suono candido e pulito e dai sentimenti autentici, con una voce acuta e armoniosa che risalta sulle note. Tre pezzi, molta discrezione, senza invadere, poi lo spazio al suono pieno della batteria di Pablo Leoni ad aprir le danze all’artista inglese in cartellone.
Shake It Up, e il ritmo sale, una carrellata dal suo album Howl, e un riassunto della sue esperienza musicale, senza esimersi dalle proposte nuove di zecca portate in anteprima qui nel Bel Paese. Immagini di un album rock, il blues e gli assoli cadenzati, lo slide sinuoso di From Time To Time e quei “profitti dell’amore” che strappano dichiarazioni come I’m your Man, con la voce di Alex Haynes che si fa suadente come nelle migliori corde di un navigato soulman. Il suo stile incarna lo spirito down home, ma anche il soul e un sudato rock and roll, fra una vigorosa Can’t Stop Now e il groove di Make It Sunshine, energici dialoghi col basso di Diaferio e un’alchimia che i tre suggellano attorno a stacchi, sincronie e serrati ritmi.
Ma nel variopinto repertorio, chitarre acustiche e scivolosi slides, fangosi riff e increspanti melodie, malinconiche slow ballad (una splendida Saturday Night) e distorsioni pronte a trasformare un tocco delicato in un sonoro schiaffo. Occhi di un profondo azzurro e un omone il cui cuore pompa sangue misto tra quell’incavolato british blues e le radici antiche d’oltreoceano, in una amalgama dal colore vivo ed omogeneo. Vibrante, “americano” e a tratti Southern… inevitabile per chiunque ami il blues, in un’alternanza Samick/Telecaster da buone vibrazioni.
Un power trio roccioso e potente, dinamico e versatile, che si avventura in una coraggiosa Shake Your Hips: roba da far ballare un morto. Ma il pubblico tranquillo del teatro preferisce stare comodo, continuando a condensare pulsazioni sulle note di un encore che suda nuovamente blues, fra reminiscenze del passato e “l’ultimo treno” a disposizione. Peccato che la sensibilità dei molti sia ancora troppo poca per premiare il lavoro e l’impegno di encomiabili promoter ed assessorati alla cultura. Servirebbero più amanti impavidi della buona musica anziché indefinite masse di confusi ascoltatori alla ricerca della moda del momento. Un plauso ai presenti anche se in numero ristretto, quindi. Pazientiamo, o teniamo duro… a voi la scelta.