ALEX CHILTON
FROM MEMPHIS TO NEW ORLEANS
SONGS FROM ROBIN HOOD LANE
BAR NONE
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Sono state tante e tali le anime musicali di Alex Chilton che è assai più difficile di quanto possa sembrare ridurlo ad un qualsivoglia stereotipo. Se nella storia del rock ci è entrato soprattutto grazie ai Big Star, come dimenticare i suoi inizi coi Box Tops, il sodalizio con Tav Falco nei Panther Burns, le produzioni dei Cramps, le collaborazioni con tipi quali Ben Vaughn e Alan Vega, la sua ricchissima produzione solista? Non solo di power pop è stata fatta insomma la lunga carriera musicale dello sfortunato singer songwriter americano e queste due nuove antologie approntate dalla Bar None arrivano appunto a ricordarcelo, puntando un faro sulla sua produzione anni 80 (e in parte 90), un periodo in cui, mentre band come R.E.M. o Replacements iniziavano a cantarne e a testimoniarne l’importanza, lui si arrabattava tra lavoretti di fortuna e un paio di formazioni diverse con cui poter suonare dal vivo e continuare a provarci pubblicando nuovi dischi a suo nome.
From Memphis To New Orleans, il cui sottotitolo dice tutto (Best Of The 1980s Recordings), antologizza una serie di tracce provenienti dai dischi registrati durante gli anni 80, appunto. Mentre attorno a lui si muovevano tutt’altri suoni, Chilton andava alle radici della sua musica in quello che sarà, con diverse modalità e gradazioni, un po’ il leit motiv di buona parte della fase conclusiva della sua carriera. Nelle quindici, a volte rare, tracce qui selezionate – tratte dagli album High Priest (1987) e Black List (1989), dall’EP Feudalist Tarts (1985) e dai singoli dell’epoca, tutti lavori realizzati durante il suo trasferimento a New Orleans – è infatti un rifiorire di affondi rythm & blues (B-A-B-Y, Thank You John, Take It Off), blues chitarristici (Lost My Job), reminiscenze primi sixties (Paradise, Let Me Get Close To You), scoppiettanti rock’n’roll (Underclass, Lonenly Weekends), boogie surfeggianti (Little GTO di Ronnie & The Daytonas), mutazioni quasi crampsiane (Dalai Lama) e classic rock (No Sex, Nobody’s Fool). Facile considerarle parte del repertorio minore di un autore in altre situazioni autenticamente grandissimo, ma la qualità media e la freschezza generale non possono che farcele considerare una bella (ri)scoperta, oggi.
Ancor più particolare il contenuto dell’altra antologia qui presa in esame: Robin Hood Lane era la via in cui Chilton abitava quando era un adolescente con la famiglia. Figlio di un musicista jazz, il pianista e sassofonista Sydney Chilton, Alex crebbe consumando la collezione di dischi del padre, divenendo fan di artisti quali Ray Charles, Charles Mingus, Glenn Miller e moltissimi altri. Quello che si sente in Songs From Robin Hood Lane è parte dei diversi tributi pagati da Chilton nei confronti di quell’importante periodo formativo. Qui dentro troverete cinque tracce tratte dall’album Cliché (1993), disco assolutamente da recuperare e che conteneva una serie di cover di standard jazz eseguiti per sola voce e chitarra acustica (ascoltatevi le bellissime versioni di My Baby Just Cares For Me o di Let’s Get Lost, la prima basata sulla versione che ne diede Nina Simone, la seconda poi diventata anche il titolo di un documentario su Chet Baker). Il resto dell’album vede pubblicate, in parte per la prima volta, delle session realizzate con musicisti quali il suo vecchio collaboratore e bassista Ron Miller, il pianista e sassofonista Robert Arron e il batterista Richard Dworkin. Sono pezzi facenti parte del repertorio di Chet Baker, di Ray Charles, di Nancy Wilson, riproposti tramite un classicissimo sound jazz, tra swing e interpretazioni da crooner, musicalmente ineccepibili ed eleganti, all’apparenza poco più che un esercizio di stile, ma in realtà qualcosa di abbastanza personale, viste anche le performance vocali di Chilton, piuttosto distanti dai cliché del genere. Di sicuro offre ai fan la possibilità di conoscere un lato sicuramente poco noto e/o dimenticato della discografia di Alex Chilton.