ALEJANDRO ESCOVEDO, Chiari, 25/03/2017
Periodo decisamente positivo per gli amanti del rock, nel giro di un paio di settimane sono passati James McMurtry con band, la potente Tedeschi-Trucks Band e Alejandro Escovedo. Come per McMurtry ho seguito il concerto di Alejandro Escovedo al Teatro Toscanini di Chiari, location perfetta per questo tipo di esibizioni, non troppo ampia ma comoda e con una buona acustica. È stato un concerto emozionante, vibrante, ruvido e romantico dove le radici punk di Escovedo si sono saldate su una riconosciuta abilità da songwriter nel raccontare storie dell’emisfero rock americano. Supportato da una band coi fiocchi capitanata da Antonio Gramentieri, uno dei migliori e più personali chitarristi italiani, il quale ha regalato all’artista texano un sound al vetriolo a tratti davvero deflagrante, Escovedo si è rivelato una volta di più autore, cantante e rocker di stoffa pregiata, uno che ha saputo trarre dalle difficoltà della vita la spinta per essere comunque propositivo e lucido. Pochi anni fa una cordata costituita da Steve Earle, Lucinda Williams, The Jayhawks, John Cale, Ian Hunter e Sheila E. ha permesso all’artista di pagarsi delle esose cure mediche per la cura di una devastante’epatite, il fatto di aver toccato con mano la possibilità della morte sembra aver rigenerato Escovedo, i suoi ultimi album, a cominciare da Street Songs of Love fino a Burn Something Beautiful non fanno mistero di una ritrovata sensibilità e creatività artistica, tra i migliori della sua lunga carriera .
Sul palco di Chiari Escovedo ha raccontato storie amare e spiritose, ha ricordato i tempi eroici coi Rank &File e i Nuns (il loro maggior pregio fu quello di aprire nel 1978 al Winterland di San Francisco un concerto dei Sex Pistols), ha smitizzato Austin (statene alla larga, è diventata cara e irriconoscibile), ha tirato in ballo la volta che incontrò Bruce Springsteen davanti a 50 mila persone e lì nacque la canzone Faith (che poi non ha eseguito, è su Street Songs of Love ndr.), ha rammentato la prima volta in Italia a Sesto Calende grazie a Carlo Carlini, ha ironizzato sulla sua numerosa famiglia e ha ringraziato quanti hanno reso la musica texana universale, da Jimmy Dale Gilmore a Townes Van Zandt, da Joe Ely e Terry Allen a Butch Hancock. Soprattutto ha giganteggiato con le sue melodie semplici, i suoi assoli sferraglianti, le sue canzoni tribolate e meticce, mostrando uno spirito rock mai autoreferenziale e celebrativo ed un ritrovato entusiasmo giovanile, a 66 anni di età.
The Scotch, una ottima band locale, ha avuto l’onore di aprire degnamente la serata, il loro british blues on the rocks è suonato secco e incisivo, un modo per coniugare Wilko Johnson con i Fleetwood Mac. Gli applausi sono piovuti meritati. Giù loro dal palco, una breve performance strumentale di Don Antonio, la band di Gramentieri, ha introdotto Alejandro Escovedo il quale ha subito impresso al set un taglio nervoso e spudoratamente elettrico. Gramentieri creava suoni aguzzi e lancinanti per poi lasciare spazio a momenti più dilatati, il sassofonista Franz Valtieri soffiava rabbioso, la sezione ritmica con Matteo Monti alla batteria e Denis Valentini al basso mordeva felina ed Escovedo con una Gibson in mano cantava Don’t Make Me Run.
È stato chiaro che le origini texane non comportavano alcun spazio per il roots-rock o qualsivoglia declinazione rurale del rock, andava in scena un rock febbricitante e urgente e quando la tensione sembrava allentarsi, Escovedo imbracciava la chitarra acustica per sfoderare alcune ballate prive di zuccheri e nostalgie da cowboy ma portatrici di una redenzione sufficiente a salvare anche la più dannata delle anime. Un altro poeta rock a tinte scure faceva capolino davanti ai nostri occhi, uno di quei rocker veri fino al midollo, e proprio l’ultimo album Burn Something Beautiful, il cui titolo ben spiega il clima delle canzoni e del concerto, faceva da perno attorno al quale si sviluppava il set , con la messa in campo di Shave The Cat, proposta subito dopo Can’t Make Me Run, di Beauty Of Your Smile, di Heartbeat Smile, di Horizontal e Luna De Miel.
La voce di Escovedo, una sorta di più crudo e addolorato Randy Newman, si fondeva dentro un groviglio elettrico che riportava d’attualità il sound della Los Angeles punk di fine settanta e anche quella di Buick MacKane, una sua invenzione del 1997, quel crogiolo di suoni graffianti, armonie power-pop e rasoiate elettriche che costituì il suo battesimo. La band di Don Antonio si trovava a suo agio in un siffatto riottoso rock n’roll e quando il sassofonista, col tenore e col baritono, entrava in azione gli schizzi sonori erano talmente espressionistici e free che a qualcuno venivano in mente i primi Soft Machine e i Morphine.
Ce n’era per riempirsi le orecchie e rigenerare i sensi, finalmente un sano, caustico e veemente rock n’roll shockava la paciosa atmosfera di un sabato sera in provincia, storie che non sono il frutto di una illusione adolescenziale benedivano un rock ancora in grado di essere “offensivo” e deragliante. E se ad un certo punto si è sentito il bisogno di qualche dolcezza, ecco arrivare Sister Lost Soul dedicata a Chuck Berry ed una Down In The Bowery in grado di commuovere anche i Metallica. Una ballata sublime che annovera Escovedo tra i magnifici storyteller urbani, uno che sta solo più a ovest di Willie Nile, David Johansen e Ian Hunter e possiede la fotografia di Neil Young nel portafoglio, visto che dopo la applauditissima Always A Friend come ciliegina sulla torta chiama pubblico ed invitati a seguirlo nella cavalcata di Like A Hurricane. Come dire, i nervi e le asprezze ma anche il cuore ed il vento del rock n’roll. Old rockers never die.