Si contano ormai sulle dita personaggi come Alejandro Escovedo usciti più o meno illesi dagli alti e bassi della vita ed ancora in grado di entusiasmare il pubblico con il vigore della gioventù. Lui è l’esempio dell’artista che non si è arreso nemmeno davanti a malattie che lasciavano poche speranze trovando la forza di scrivere canzoni che sono lo specchio delle amarezze e della bellezza della vita, frutto di una creatività mai appassita, riconosciuta dai tanti estimatori che lo seguono da anni e che pure questa volta hanno riempito l’1e 35 di Cantù per vederlo in azione. Nel marzo del 2017 era stato protagonista di una incandescente esibizione, non è stata da meno la serata del 29 aprile, il centinaio e più di presenti hanno salutato un set trascinante, caldo, energico dove Escovedo ha raccontato del Texas, del border messicano, dell’immigrazione, del punk di ieri e dell’America di oggi e dove il suo songwriting ha beneficiato del rock elegante ma al tempo stesso sferzante di Don Antonio, una band che è il carburante adatto per le molteplici espressioni dell’artista texano.
Sono stati loro ad aprire la serata con tre brani che hanno portato il Texas nelle balere romagnole grazie al secco fraseggio di Antonio Gramentieri con la Telecaster e alle focose entrate del sassofono di Franz Valtini. Una fascinosa atmosfera retrò di un fine estate di primi anni sessanta, quando la gente se ne è ormai tornata in città e gli ultimi inossidabili vitelloni sono il pubblico distratto di un’orchestra che suona solo per sé stessa. Quasi un amarcord cinematografico, come è appunto la musica di Don Antonio creata attorno al sapiente twangin’ del leader ma scomposta dal brioso sassofono urlato jazz, dal drumming asimmetrico di Matteo Monti e dal basso vorticoso di Denis Valentini.
Facile andare a nozze con un simile team e Alejandro Escovedo ci va alla grande. Imbraccia una acustica elettrificata e apre con la suggestiva Anchor, il brano di apertura del suo Street Songs For Love per poi presentare due ore di canzoni a tutto rock intervallate dai lunghi racconti sui migranti del border, sulla solidarietà tra un ragazzo messicano e un ragazzo pugliese lavoranti in un ristorante di Dallas, sulla sua famiglia e sul padre fuori di testa, su un viaggio in età infantile in California abbagliato da colori sgargianti della nuova terra ma immelanconito dal ricordo del Texas , sui trascorsi punk e sulle tante band che hanno scritto una storia diversa dell’american music, come i Green On Red, i Nuns, i Rank and File, Chuck Prophet, Jeffrey Lee Pierce, gli Standells, Question Mark and The Mysterians, gli Stooges e i True Believers, mischiando parole e musica con la stoffa del cantastorie, stanco alla fine ma consapevole di aver regalato un pezzettino della sua avventura artistica ad un pubblico che lo ha seguito attento e partecipe per tutte le due ore.
Emozionato lui, emozionato Don Antonio ed emozionati noi da tanta bravura e sincerità. Inutile fare la sequenza dei brani, sono passate applaudite le ballate sporcate dalla Telecaster di Gramentieri, i crudi ganci elettrici stropicciati dal sassofono acido di Valtini, le code lisergiche delle chitarre di Antonio e Alejandro in un rincorrersi furioso, le parentesi da crooner in cui Gramentieri cantava un verso in italiano come fosse Pino Donaggio ed Escovedo gli rispondeva in inglese prima che la canzone si piegasse in uno sferragliare urbano degno dei Television, i riff in odore di Stones e il drumming sghembo sdrammatizzante anche il più feroce dei punk anni ottanta, qualche tenue love song ed il polveroso rock n’roll del Texas orientale. Un universo musicale dove le storie si sono abbracciate ai suoni per uno dei concerti più vitali usciti quest’anno da un club in Italia.
Per chi amasse l’informazione dettagliata l’ultimo album The Crossing registrato con Don Antonio ha fatto la parte del leone con le riprese di Texas Is My Mother, Teenage Luggage, Flying, Sonica Usa, Something Blue, ma sono comparse anche Sally Was A Cop, la nostalgica San Antonio Rain, Castanets e Fury and Fire. Per non dire del finale da pelle d’oca cominciato con una rallentata resa di Just Like Tom Thumb’s Blues di Dylan nella versione che fa Bryan Ferry in Dylanesque nel segno di una sorta di tributo nascosto allo stesso Ferry con il seguente devastante numero di Like a Hurricane di Neil Young che coverizzavano anche i Roxy Music. Tra le due chicche Escovedo trovava il modo di omaggiare una delle sue band più amate, i Mott The Hoople, con la struggente I Wish I Was Your Mother. Alla fine tutti in piedi, stupiti e sorridenti davanti ad un signore che a 67 anni, con una band italiana tanto superba quanto ignorata, porta in giro per le strade del mondo un orgoglioso rock di sentimento e di nerbo. Avercene, tutte le settimane.