Recensioni

Adriano Viterbini & Reed Turchi, Scrapyard

viterbini_turchiADRIANO VITERBINI & REED TURCHI
Scrapyard
Mojo Station / Goodfellas
***1/2

Arriviamo con colpevole ritardo su di un album, risalente allo scorso anno, da far sentire a tutti costi a chiunque pensi, spesso con ragione da vendere, che la tradizione country-blues in mano a musicisti di origine non americana possa dare adito solo a risultati scolastici, ingessati o comunque poco sinceri e ispirati.

Scrapyard, ossia «discarica» o «deposito di rottami», come rottami vengono considerati, oggi, le bobine magnetiche della Reeves Soundcraft (un tempo i principali concorrenti dei nastri Ampex e Scotch) immortalate all’interno del CD o i dischi di chi si ostina a ragionare sui temi desueti del folklore americano, nasce dall’incontro tra il romano Adriano Viterbini, già chitarrista dei Bud Spencer Blues Explosion, e Reed Turchi da Asheville, North Carolina, leader dell’omonimo power-trio venuto alla ribalta nel 2012 con l’entusiasmante Road Ends In Water.

Scoperta una comune formazione musicale, i due si sono chiusi in studio, prima a Memphis (attuale cittadina del secondo) e poi nella città eterna, con l’idea di improvvisare qualche arpeggio spettrale e qualche distorsione di slide in omaggio al comune amore Fred McDowell, il capostipite del blues – ipnotico, rarefatto e costruito sulla ripetizione degli accordi – proveniente dalle regioni più profonde del Mississippi. Ne sono scaturiti otto pezzi forse non sorprendenti per chi abbia già ascoltato il primo lavoro solista di Viterbini, quel Goldfoil (2013) dedicato al primitivismo minimale e onirico di John Fahey, e neppure per coloro i quali abbiano intravisto, dietro l’irruenza kudzu-boogie dei Turchi, la ragionata consapevolezza folk del loro fondatore, ma di certo spiazzante per tutti i sostenitori dell’impossibilità di intrecciare fino in fondo certe frontiere. Perché, tutto sommato, questo accade nel corso di Scrapyard: la sensibilità alla Ry Cooder di Viterbini si mescola al tocco ossessivo di Turchi per riadattare il blues delle origini in una scheletrica camminata sul set di un deserto, o di una palude, dove la vita viene fatta scorrere in frammenti, lampi d’illuminazione, fluttuazioni nervose di suono.

Con 3 pezzi cantati – They All Say That Life’s Fast (But I Find It Kind Of Slow), The More I Think (The Less I Seem To Know) e Texas Mist – su 8 complessivi, l’opera di Viterbini e Turchi non manca di evocare il desolato romanticismo di Paris, Texas (1984), evidentissimo nell’iniziale Latitudes, come il folk-blues sofferto e minimale dell’ultimo Chris Whitley (Out Of The Wind), il deragliamento elettrico di Cottonmouth Drag come le sonorità countreggianti della radiosa Sowbelly (o quelle fradicie di spiritual della conclusiva Gira); lo fa trovando ogni volta una strada personale e inattesa, insinuandosi con metodo e senza parafrasi gratuite dello stile altrui nel ritmo lento delle scenografie rurali (nazionali o di altri continenti), sfruttando con disinvoltura il fascino dell’attesa e l’intensità del mistero.

Gli strumenti di Viterbini e Turchi, alla fine, non appartengono né all’Italia né all’America: oscillano in uno scarto acustico e temporale non riconducibile a un unico paese, fino a sospendersi in un confine immateriale che è l’unica patria di un concentrato d’equilibrio, precisione e passione chiamato Scrapyard.

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