Sorprende il fatto che scartabellando alcune enciclopedie di blues italiane e francesi il nome di John Mayall, nato il 29 novembre 1933 a Macclesfield, nella regione inglese del Cheshire, non compaia, come se ci fosse una distinzione tra il blues dei neri e quello dei bianchi. Steccati che la storia ha spazzato via, per fortuna, nonostante sia stato proprio il pallido John Mayall, agli albori degli anni sessanta ed in terra inglese, ad aprire le porte del blues afroamericano, portando alla luce una tradizione che all’epoca rimaneva sotterranea e cibo per pochi appassionati, per lo più circoscritti all’ambito del trad-jazz anglosassone.
Un pioniere John Mayall, se si pensa che già nel 1962 fondò una band, i Powerhouse Four, che masticava il linguaggio del blues di Pinetop Perkins e Sonny Boy Williams, anche se la sua più grande influenza, specie per quel suo falsetto sottile e riconoscibilissimo, fu J.B Lenoir e nel 1963, su consiglio di Alexis Korner, l’altro grande vecchio della scena British blues, diventò uno degli ospiti fissi delle serate al Marquee Moon di Londra coi suoi Bluesbreakers, un’orchestra a geometria variabile che fu scuola dei più titolati e bravi chitarristi e musicisti inglesi di quel movimento rivoluzionario, che insegnò agli stessi colleghi americani chi fossero i padri della loro musica.
Nei Bluesbreakers ci passarono tutti, da Eric Clapton nel rivelatorio Blues Breakers John Mayall with Eric Clapton (1965), dove per la prima volta la materia di Chicago veniva trattata in una intensa declinazione rock-blues, a Mick Taylor che debuttò teenager in Crusade (1967), per poi partecipare al magnifico concept-album di umore californiano Blues from Laurel Canyon, da Peter Green che ancora prima di formare i Fleetwood Mac scarabocchiò tra rigore e assoli visionari Hard Road (1967), dal Freddy Robinson dell’incendiario Jazz Blues Fusion (1972), uno degli irrinunciabili live del secolo scorso, al memorabile lavoro fingerstyle di Jon Mark nell’incantevole Empty Rooms (1970), fino ai tanti chitarristi che hanno costellato la sua seconda stagione, meno celebrata ma altrettanto nobile, come Coco Montoya, Buddy Whittington, Rocky Athas, Joe Walsh, Andy Fairweather-Low, Carolyne Wonderland. Senza contare i dischi in cui i suoi tanti friends hanno lasciato la firma: Steve Cropper, Steve Miller, Joe Bonamassa, Jeff Healy, Billy Gibbons, Walter Trout.
Ma John Mayall, cantante ed armonicista eccelso, ma anche tastierista, chitarrista e compositore sopraffino, ha promosso attraverso i Bluesbreakers e i suoi combo fior fiore di altri musicisti, a cominciare dai sassofonisti Chris Mercer e Dick-Heckstall Smith e dal batterista Jon Hiseman nell’elegante e sperimentale Bare Wires (1968) precursore del jazz-rock, per non dire dei bassisti Jack Bruce, Tony Reeves, John Mc Vie, Greg Rzab, dei batteristi Mick Fleetwood, Ainsley Dunbar, Hughie Flint, Colin Allen, per ognuno dei quali si potrebbe raccontare una storia.
Pioniere ma soprattutto innovatore in possesso di una conoscenza infinita e approfondita del blues sia urbano che rurale, e di un gusto, di una raffinatezza e di un calore del tutto unici nel riproporlo dove feeling ed eleganza non sono mai in contrapposizione, Mayall ha trasformato lo skiffle ed il folk che gravitava nei club di Londra e Manchester agli albori dei sixties in un sound più corposo, crudo e moderno, definendo con la sua armonica sciabolante in John Mayall Plays John Mayall (1965)un approccio più adulto e spregiudicato al blues, ed in anni in cui la chitarra elettrica regnava sovrana nei lunghi assoli ha saputo coraggiosamente sfornare opere in cui il blues veniva spurgato degli aspetti più spettacolari facendo a meno della batteria, riconsegnato in una dimensione più intima, soulful, intrigante, creando a volte una sorta di sospesa e sognante psichedelia west-coast blues dai colori light.
Il periodo che abbraccia i citati Blues from Laurel Canyon ed Empty Rooms (dove il basso è nelle mani del formidabile Larry Taylor dei Canned Heat, band amatissima da Mayall e il flauto di Johnny Almond infonde una sensuale atmosfera down-home) e l’incommensurabile live al Fillmore East The Turning Point (1969) sono tra quelli più amati dai fans proprio per un approccio disincantato e minimale al blues, che di lì a poco si ritroveranno di fronte ad un altro turning point, questa volta con una band elettrica all american ospitante il chitarrista dei Canned Heat Harvey Mandel ed il funambolico violinista Sugan Cane Harris. Usa Union (1970) il titolo di quel lavoro, prima del doppio album del 1971 Back to The Roots registrato tra Los Angeles (dove Mayall si era spostato a vivere) e Londra, con cui assieme ai gli amici di sempre, Clapton e Taylor e il batterista Keef Hartley, chiude un’epoca memorabile.
Continuo cambio di musicisti e di etichette e album sfornati senza sosta parevano l’anticamera di un lento ma comunque produttivo declino ed invece il nostro dotato di forza fisica e psicologica, magro, atletico e frequentemente in canotta, scorza da lavoratore indefesso, tenacia ed attitudine alle resurrezioni, grazie al suo carisma è rimasto una calamita capace di attirare gli affamati di blues, grandi o piccoli che siano. Così nel 1984, John Mayall ripristina una nuova formazione dei Bluesbreakers che danno seguito ad album mai sotto lo standard di livello, vale la pena citare Padlock on the Blues (1999) con special guest John Lee Hooker, Along for The Ride del 2001 accreditato a John Mayall and Friends e il concerto del 19 luglio 2003 alla Liverpool Arena, ripreso anche in DVD, dove festeggia i suoi 70 anni con i suoi alunni Clapton, Chris Barber, Mick Taylor oltre all’immancabile Buddy Whittington e all’organista Tom Canning.
Una bella panoramica di quegli anni è raccolta nel box del 2006 di 5CD della Eagle Records Essentially John Mayall, mentre John Mayall So Many Roads è una antologia della Universal del 2010 che copre il decennio d’oro 1964-1974. Ma a dimostrazione della sua longevità creativa, della sua umiltà nel confrontarsi coi vecchi e col nuovo, del suo essere stimolo per chi del blues ha fatto una ragione di vita, di lavoro, di ricerca e di messaggio sociale, negli anni dieci Mayall è tutto fuorché un pensionato nonostante l’età, e i suoi dischi, per come sono cantati, suonati e prodotti, risultano essere artigianato di classe, senza mai l’ombra di esibizione, lucidature e mestiere fine a sé stesso.
A tale riguardo, consiglio Find Way To Care (2015), Talk About That dell’anno seguente e Nobody Told Me (2019) dove sono presenti Bonamassa, Larry Mc Cray, Todd Rundgren, Steven Van Zandt e Carolyn Wonderland. Quello è l’anno in cui l’ho visto l’ultima volta in concerto a Fontaneto d’ Agogna dove, a parte l’eccellente e anti-retorica performance, lo vidi a margine dell’esibizione seduto in solitario al banchetto a vendere i propri dischi e fare autografi.
Umiltà e sobrietà, oltre che la classe della persona autentica, ormai rara nel mondo della musica moderna. John Mayall non è passato invano, ha lasciato un segno indelebile sulla terra che ha calpestato e ha deliziato con la sua voce i suoi strumenti, il suo inimitabile blues, se ne è andato in silenzio il 22 luglio nella sua casa californiana all’età di novanta anni. Un gigante.