Recensioni

AA.VV., Dylan, Cash, and The Nashville Cats: A New Music City

nashville catsAA.VV.
Dylan, Cash & The Nashville Cats – A New Music City
Sony Legacy 2CD
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Nell’estate del 1965, Charlie McCoy, musicista della Virginia da tempo trasferitosi nel Tennessee, noto per i suoi virtuosismi all’armonica ma di fatto in grado di destreggiarsi alla grande su qualsiasi strumento a corda, si trova a New York per qualche settimana di vacanza. Il suo amico Bob Johnston, produttore discografico originario del Texas cui la Columbia ha affidato la gallina dalle uova d’oro Bob Dylan, oggi come allora gratificato da una popolarità trasversale, lo invita a farsi vivo durante le registrazioni di Highway 61 Revisited, l’album del consolidamento della «svolta elettrica» dopo l’incandescente transizione verso il rock di Bringing It All Back Home, uscito solo pochi mesi prima. Dylan conosce McCoy e ne apprezza i lavori al fianco di Chet Atkins e Roy Orbison, così lo esorta a improvvisare parti di chitarra acustica su di un’ancora embrionale Desolation Row; nonostante la lunghezza della canzone, lo spirito visionario e la metrica ribelle delle sue strofe, McCoy aggancia al volo gli accordi giusti, trovando subito l’accompagnamento adatto per un brano fino a quel momento inciso più volte ma senza mai trovare la versione definitiva. L’autore, sbalordito, rivolge a Johnston uno sguardo incredulo. Questi alza le spalle e gli dice: «Se vai a Nashville, suonano tutti così».

Per il successivo Blonde On Blonde (1966), col quale riuscirà a creare un nuovo linguaggio folkrock (tanto anfetaminico quanto rispettoso nei confronti dell’inevitabile retaggio tradizionalista) proprio avvalendosi dei migliori turnisti della città, Dylan decide quindi di volare nella cosiddetta «Music City», dove peraltro registrerà, in parte o del tutto, anche i tre album seguenti. In quel di Nashville, l’artista di Duluth trova veri e propri professionisti del lavoro in studio, in genere reclutati per soddisfare la continua richiesta di produzioni locali, e altrettanto spesso mortificati da un format musicale in cui l’idioma country viene piegato alle esigenze commerciali di un confezionamento sempre più patinato e convenzionale. In realtà costoro hanno le stesse radici di Dylan, apprezzano (e conoscono) il country quanto il rhythm’n’blues, il soul e il jazz, possiedono una versatilità fuori dal comune (tra i tanti episodi da tramandare ai posteri, spicca quello di un McCoy che, dopo aver suggerito di inserire una tromba su Most Likely You Go Your Way (And I’ll Go Mine), per “doppiare” l’organo di Al Kooper, conoscendo l’antipatia di Dylan per le sovraincisioni si offre di suonare, contemporaneamente, sia la tromba sia il basso, facendolo nondimeno alla perfezione).

Grazie alla risonanza garantita da His Bobness, i musicisti di Nahville, da sempre considerati di scarsa o nulla utilità per gli artisti abituati a rivolgersi al pubblico giovanile (i dirigenti della CBS, spaventati dall’eventualità di una penalizzazione in termini di vendite, addirittura suggeriscono a Zimmie di non includere il nome della cittadina nel titolo di Nashville Skyline [1969]), diventano all’improvviso un richiamo irresistibile per centinaia di colleghi provenienti dal mondo del folk, del country e persino del rock and roll, però intenzionati a ottenere un suono fluido, dinamico, improvvisato, in grado di contenere al tempo stesso la disciplina del folclore e il suo superamento.

La piccola rivoluzione si dispiega per intero quando il leggendario Johnny Cash, estimatore di Dylan fin dalla prima metà dei ’60, nel 1969, oltre a partecipare a Nashville Skyline e a scriverne le note di copertina, inizia a trasmettere dal Ryman Auditorium di Nashville il suo show televisivo (58 puntate andate in onda, fino al 1971, sul canale ABC), offrendo un ulteriore palcoscenico non solo a tutti gli outsider della scena country-folk, spesso accompagnati proprio dai «Nashville Cats», i turnisti della città già celebrati dai Lovin’ Spoonful in un’omonima canzone del 1966 (dedicata «ai 1352 chitarristi di Nashville») modellata sul boom-chicka-boom di Cash, ma anche a colleghi del sud, stelle del blues, discepoli inglesi etc.Per diversi anni, a Nashville arriveranno più o meno tutti, ciascuno ansioso di collaborare con il citato McCoy, con i chitarristi steel Lloyd Green e Don Helms, con la sei corde di Harold Bradley, col basso di Bob Moore, col mandolino di Ray Edenton e decine e decine di altri «Nashville cats». Nel Tennessee verranno incisi album dei Byrds (Sweetheart Of The Rodeo, 1968), di Linda Ronstadt (Silk Purse, 1970), di Neil Young (Harvest, 1972) e della Nitty Gritty Dirt Band (Will The Circle Be Unbroken, 1972), come pure canzoni di Leonard Cohen, JJ Cale, Waylon Jennings, Gary Stewart, Johnny Winter.

Quella stagione irripetibile viene oggi celebrata, nei luoghi dove tutto ebbe inizio (cioè presso il museo della Country Music Hall Of Fame di Nashville), con un’imponente mostra multimediale dal titolo Dylan, Cash & The Nashville Cats – A New Music City, inaugurata durante la primavera e visitabile, casomai vi crescessero soldi e curiosità per un biglietto aereo, fino al dicembre del 2016. La Sony Legacy accompagna l’evento pubblicando un omonimo doppio album, di quelli che, contenendo un solo inedito (una versione alternativa, molto più countreggiante della sorella poi apparsa su New Morning [1970], della dylaniana If Not For You: deliziosa sebbene non indispensabile), corrono il rischio di vedersi affibbiata l’etichetta di cadeaux ridondante per chi se lo può permettere, oppure ancora, di vera e propria presa per i fondelli nei confronti del filologo zimmermaniano (tra questi chi vi scrive) disposto a pagare a peso d’oro ogni oscuro singhiozzo del proprio beniamino.

Se però la smettessimo, come sarebbe auspicabile, di considerare il rock e la musica popolare un fenomeno da leggere sempre e comunque senza gli strumenti altrimenti usati per inquadrare correnti artistiche gratificate da ben altro trattamento critico (e se ci rendessimo conto, una volta per tutte, dell’arretratezza e dell’inadeguatezza di quegli strumenti analitici che li vogliono per forza elementari e pezzenti, in posizione ancillare, se non di statura inferiore, rispetto a forme d’arte studiate con maggiore profondità, come se alle ore e ore impiegate affinché un dobro suonasse in un certo modo non potessero corrispondere volumi e volumi di indagine, corsi universitari o addirittura intere monografie), allora potremmo prendere le 36 canzoni di Dylan, Cash & The Nashville Cats – A New Music City per quanto realmente sono, ovvero un compendio antologico, utilissimo per il neofita e stuzzicante per il conoscitore, finalizzato a mettere in prospettiva storica un movimento creatosi quasi per caso e tuttavia in grado di modificare alla radice la fisionomia sonora del capoluogo della musica più conservatrice d’America, mutandone la reazione in progressismo, la nostalgia in riforma, i vincoli in libertà. Di certo gli appassionati di cose roots non troveranno qui alcuna rivelazione, ma non è a loro che l’opera si rivolge. A tutti gli altri, a chi voleva esserci e per ragioni anagrafiche non ha potuto, a chi dell’epopea conosce soltanto i capisaldi e non i protagonisti laterali, a chi è convinto che nulla si crei o si distrugga ma tutto si trasformi, viene invece fornita l’occasione per capire come il bluegrass corrusco di Earl Scruggs & Lester Flatt (Down In The Flood) incontri il cow-punk in anticipo sui tempi di Bob Dylan (Absolutely Sweet Marie), forgiando un wild mercury soundtra rock e radici confluito nella spumeggiante coralità elettrica dei Byrds (You Ain’t Goin’ Nowhere), nelle contaminazioni tra pop e hillbilly dei Monkees poi citati da Steve Wynn (Some Of Shelley’s Blues), nelle ballate folk di John Hartford (Gentle On My Mind), nello swing a tinte western di Jerry Jeff Walker (Driftin’ Way Of Life) e in quello più errebì di Steve Goodman (City Of New Orleans), fino a risplendere di intimità confessionale nel pianoforte di Eric Andersen (Blue River) e nella chitarra acustica e nei cori soul di Steve Young (Seven Bridges Road), o a infiammarsi di rockabilly in una Matchbox interpretata dall’autore Carl Perkins in compagnia del vecchio datore di lavoro Johnny Cash e di Derek & The Dominos.

Un racconto omerico, apolide (ci sono anche gli omaggi solisti di Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr), ancora oggi moderno e dotato di valore profetico: un’altra dimostrazione di quali meraviglie, da riscoprire o da scoprire per la prima volta, si nascondano nelle pieghe del tempo.

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