Nato l’ultima notte del 1944, e perciò spentosi pochi giorni prima di compiere i settant’anni, Jonathan “John” Fry è stato uno dei personaggi più importanti e significativi della scena musicale di Memphis, Tennessee, e non solo.
Sin da ragazzo aveva espresso una forte curiosità nei confronti di apparecchiature elettroniche e meccanismi analogici, interesse poi diventato, grazie alla collaborazione di alcuni compagni di scuola (tra questi Fred Smith, futuro fondatore del colosso della logistica FedEx), una prima, rudimentale forma di professione, ossia quella di produttore fai da te per una serie di sconosciuti gruppi locali. Insoddisfatto a causa della modestia degli equipaggiamenti in dote allo studio di registrazione del periodo, Fry si decise a installare nuovi impianti, di sua creazione, presso il garage della madre, dando così vita, intorno al 1959, a una primigenia incarnazione della Ardent, il marchio discografico col quale sarebbe in seguito passato alla storia. Il logo della Ardent – un iconico semicerchio biancorosso su sfondo nero – sarebbe diventato operativo qualche stagione dopo, nel 1966, allorché Fry, nel frattempo diventato una piccola celebrità come infaticabile dj di una stazione radio di Pine Bluff, Arkansas, venne convinto dal musicista e socio James Luther Dickinson a riaprire i battenti delle sale d’incisione, presto traslocate al numero 1457 di National Street (e lì rimaste fino al 1971, anno del definitivo trasferimento in Madison Avenue) e suddivise in tre diversi segmenti editoriali, Ardent Music (consacrata alle produzioni, diciamo così, secolari), Ardent Records (riservata invece alla musica d’ispirazione cristiana) e Ardent Film Department (per le riprese cinematografiche e la scuola di regia). In virtù di una tecnologia di continuo aggiornata, gli studios di Fry riuscirono a strappare un esclusivo contratto di produzione e distribuzione con la Stax di Estelle Axton e Jim Stewart, arrivando in pratica a curarne oltre un terzo del catalogo complessivo (Isaac Hayes e Sam & Dave su tutti) fino all’acquisizione dell’etichetta, da parte della CBS, nel 1975. Al di là degli artisti targati Stax, negli studi della Ardent registrarono Joe Cocker, ZZ Top, James Taylor, REM, Stevie Ray Vaughan, Replacements, Cat Power, White Stripes, Travis Tritt, Mark Chestnut, Afghan Whigs, Maya Arulpragasam (in arte M.I.A.) e centinaia d’altri, compresi i Big Star di Alex Chilton e Chris Bell, oracoli del power-pop e del blue-eyed soul da Fry scoperti, incoraggiati e prodotti, troppo in anticipo sui tempi e sulle mode, benché in un secondo momento idolatrati da un numero incalcolabile di colleghi, per incontrare allora, nei primi ’70 di #1 Record e Radio City, usciti rispettivamente nel 1972 e nel 1974 (l’ultimo Third, sempre registrato nel ’74, sarebbe affiorato solo quattro anni dopo), il successo che avrebbero meritato.
Tuttavia, fu proprio mediante il lavoro di supervisione svolto sugli album dei Big Star, da lui trasformati (per ammissione dello stesso Jody Stephens, batterista del gruppo) in «un’imprevedibile versione sudista dei Beatles», che Fry ottenne, giusto il mese scorso, l’ingresso nella Memphis Music Hall of Fame. Riconosciuto quale pioniere e innovatore da musicisti del calibro di Robert Gordon o Steve Earle, definito da Dickinson «il miglior ingegnere del suono» col quale avesse mai lavorato, Fry aveva passato gli ultimi anni della propria vita a promuovere l’eredità artistica degli amati Big Star: era tornato ai cursori per remixare gli inediti pubblicati sul box Keep An Eye On The Sky (2009) e aveva finanziato il documentario Nothing Can Hurt Me: The Big Star Story, diretto due stagioni or sono dai cineasti Drew DeNicola e Olivia Mori. Fino all’ultimo, fino all’arresto cardiaco che l’ha portato via, il pomeriggio del 18 dicembre, dalle stanze dell’Ospedale Metodista dov’era ricoverato da qualche giorno, è rimasto fedele al proprio motto. «Se sei in grado di condividere il tuo lavoro con le nuove generazioni», diceva, «allora stai facendo qualcosa di duraturo».