JOSEPHINE FOSTER
No More Lamps In The Morning
Fire Records
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La musica di Josephine Foster, cantante lirica originaria del Colorado e autrice di alcune delle opere folk più personali, originali e innovative degli ultimi decenni, rappresenta, da sempre, la parafrasi di un dolore, di un senso di vuoto sconfinante nell’afasia e nella paralisi. Lo confermano, del resto, i contenuti e lo stile dei suoi dischi migliori, ossia il visionario A Wolf In Sheep’s Clothes (2005), tutto cantato in tedesco e basato, come negli album più macabri e minimalisti di Nico, sui lied ottocenteschi di Johannes Brahms e Franz Schubert, e lo spartano Graphic As A Star (2009), a tratti affidato alla sola voce e per intero costruito sulle liriche dolenti della poetessa Emily Dickinson.
Il materiale di No More Lamps In The Morning, al di là di una My Dove, My Beautiful One desunta da James Joyce, non è nuovo, perché tre brani arrivano da This Coming Gladness (2008) e due dal penultimo I’m A Dreamer, di tre anni fa (mentre uno proviene addirittura dal repertorio dei Born Heller, gruppo free-jazz nel quale l’artista militò durante i primi anni di stanza a Chicago, diventata nel frattempo la sua città adottiva), ma nuovo è l’astuccio sonoro in cui è stato questa volta custodito, ancor più asciutto e severo del solito.
Accompagnata dalla chitarra portoghese di Victor Herrero e dal violoncello fluttuante dell’islandese Gyða Valtýsdóttir (direttamente dalla formazione dei Múm), la sei corde classica della Foster si ammanta di un’aura disincarnata e fragilissima, speculare alle risonanze spettrali di una voce sempre più simile a quella di una Melvina Reynolds in versione cadaverica, per trasporre sul pentagramma il buio della perdita, in un mare piatto di afflizione dove le rare materializzazioni di speranza – la dolcezza melanconica dell’ultima Magenta, l’introduzione in chiave fado della severa title-track – non aprono squarci di futuro o parentesi di respiro. Questi elementi, piuttosto, con la loro invadenza penetrante, tagliano di netto la claustrofobia dello spazio sonoro, creando una discontinuità ossessiva, angosciante, quasi offensiva rispetto al pudore di arrangiamenti talmente scarni da apparire impauriti, fragili involucri di una sofferenza intenta a trascinarsi su se stessa.
In questo microcosmo in cui vivere fa rima con patire, i piccoli slittamenti formali, come i gorgheggi di A Thimbleful Of Milk o gli arpeggi lattiginosi dell’astrale The Garden Of Earthly Delights, finiscono per intaccare l’essenzialità di un fraseggio straniante, pressoché brechtiano nel suo impianto teatrale, catatonico, cantilenante. La drammaturgia sonora della Foster, tuttavia, si alimenta esclusivamente dal suo interno, senza concedere alcuno spiraglio al mondo esteriore, rispetto al quale rimane estranea.
A dispetto del preteso naturalismo, quella di Josephine Foster resta una musica fatta di invenzione e artificio, lontana dalla carne, dal sangue, dall’immaginazione. Nessuna scena madre, da queste parti, solo un indugiare con attenzione tra ideali e silenzi senza nulla concedere all’identificazione con gli ascoltatori. Ai quali non resta che trovare nelle cadenze impenetrabili di No More Lamps In The Morning, pur affascinante, triste, arcano e riflessivo, i lineamenti introversi dell’esercizio di stile.