IL CASO SPOTLIGHT
di Tom McCarthy
Prima di tutto una domanda. Essendo Spotlight il nome della sezione, dedicata al giornalismo investigativo, di un noto quotidiano americano, quale sarebbe Il Caso Spotlight cui allude il titolo italiano del quinto film di Tom McCarthy, presentato fuori concorso alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia?
Nessuno, naturalmente, poiché trattasi solo dell’ennesimo tentativo, da parte dei nostri al solito grossolani traduttori, di conferire un aspetto enigmatico e pruriginoso a una pellicola invece contrassegnata da sobrietà, discrezione e pudore. Caratteristiche, queste, evidenti fin da un titolo originale (Spotlight, appunto) concentrato non sulle contingenze dei vergognosi fatti di cronaca alla base della sceneggiatura ma sul meticoloso lavoro d’inchiesta – cinque mesi sintetizzati in due ore di spettacolo – grazie al quale questi eventi vennero messi a nudo e portati all’attenzione di lettori, autorità, cittadini. McCarthy e il suo co-autore Josh Singer raccontano infatti lo scandalo scoppiato in seno all’arcidiocesi di Boston nel 2001, quando un gruppo di reporter del Boston Globe denunciarono la libera circolazione di ben 87 preti pedofili in qualche modo “coperti” o spostati di parrocchia in parrocchia dal cardinale Bernard Francis Law (poi rimosso: oggi è arciprete emerito della Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma), senza mai alzare il tiro rispetto ai dettami di una messinscena sofferta ma non gridata, rigorosa ma non aspra, quasi cronachistica nel suo restituire il disagio delle atmosfere attraverso lo stile asciutto del cinema di denuncia della Hollywood degli anni ’70.
Nel retaggio del Caso Spotlight ci sono i film di Alan J. Pakula, di Sidney Lumet e di Norman Jewison (tutti già omaggiati, seppur in modo più febbrile, dal Kevin Macdonald di State Of Play [2009]), la fiducia liberal nella forza maieutica del giornalismo e, forse soprattutto, la disadorna onestà di un linguaggio convenzionale usato per inchiodare le circostanze alla loro esposizione, senza appesantirne il doloroso risvolto umano con orpelli estetici o virtuosismi fuori luogo. La ferma indignazione del regista, in questo caso, si rivolge tanto a quello che appare un vero e proprio sistema di abusi, molestie e sopraffazioni perpetrati ai danni di centinaia di bambini (spesso resi ancor più inermi da condizioni sociali di povertà e disagio), quanto all’inevitabile scomparsa di un certo tipo di giornalismo, ovvero di un meccanismo, oggi reso quasi impossibile dall’avvento della rete e dal continuo assottigliarsi delle risorse destinate ai media cartacei, costruito su lunghe pianificazioni, testardaggine, aspirazione alla verità e lavoro scrupoloso.
Marty Baron (Liev Schreiber), il nuovo direttore del Globe (dal 2013 alla guida del Washington Post) la cui curiosità viene accesa dalle dichiarazioni di un avvocato, assunto dalle famiglie delle vittime, circa le dimensioni del fenomeno e i tentativi di occultamento dello stesso da parte dell’arcivescovo Law, e i quattro membri del gruppo Spotlight – Walter Robinson (Michael Keaton), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams), Mike Rezendes (Mark Ruffalo), Matt Carroll (Brian d’Arcy James) – vengono ripresi nel perenne autunno di una Boston austera, grigiastra e dimessa, seguìti nel ripetersi delle riunioni di redazione, dei colloqui, degli scontri con la burocrazia, delle conversazioni con i legali, delle ricerche d’archivio, degli sforzi per perforare il muro di omertà eretto dalla chiesa (e dalle autorità cittadine) attorno ai propri misfatti.
Se il primo è un outsider assoluto, arrivato dalla Florida, silenzioso, estraneo alle dinamiche del consenso proliferanti nel capoluogo del Massachussets, poco interessato al baseball nonché ebreo (e per questo guardato con sospetto dalle gerarchie cattoliche della città), i secondi si rendono conto, tassello dopo tassello, di avere per le mani un mosaico di prove schiaccianti per troppo tempo minimizzato, ignorato o sottovalutato persino da loro stessi. La macchina da presa li scorta tutti con estrema naturalezza, registrando l’antagonismo, la contrapposizione netta (tanto cara al cinema d’impegno civile del passato), tra il turbamento e l’inquietudine dei singoli, relegati ai margini dalla macchina repressiva senza volto della convenzione e dell’ignavia, e l’imperturbabile velo di opacità steso dai maggiorenti di un’istituzione o di un municipio sopra i loro crimini.
Il Caso Spotlight cerca di sondare le scelte degli uomini e la reticenza dolosa di un’intera comunità ecclesiale evitando di ricorrere a forzature melodrammatiche, scene madri e semplificazioni manichee, sfruttando fino in fondo l’efficacia emotiva dei mezzi toni (evidenti in ciascuna prova di recitazione) e la solidità della punteggiatura visiva, quasi sempre laconica e asciutta. Il clima generale del film potrebbe addirittura definirsi cecoviano, anche se per la tendenza (inevitabile, viste le premesse) al prevalere di dettagli procedurali e accertamenti in serie: ne risulta un diagramma narrativo adagiato sui tempi lunghi della quotidianità, in bilico tra sfumature dolenti e spontanei accessi di sdegno, come se i fotogrammi si caricassero, seppur con umiltà, del peso della storia, del piombo delle rotative, dei pensieri delle giovinezze spezzate. Se c’è ancora spazio per opere dove gli ingranaggi di un’inchiesta giornalistica possano sostituire gli artifici formali di una più compiuta drammaturgia, allora Il Caso Spotlight lo occupa con autorevolezza e incisività.