Assenti discograficamente da quasi sette anni, i Tortoise mancavano dai nostri palchi più o meno dallo stesso tempo. Ovvio quindi che ci fosse abbondante attesa, resa quanto mai evidente dai sold out di Bologna e Roma e da un Magnolia, a Milano, venue probabilmente più spaziosa delle altre due, comunque stipato all’inverosimile (lo tengano presente quanti vorrano andare a vederli, il 27 e 28 maggio, quando torneranno in Italia, prima a Torino e poi a Brescia).
In apertura di serata, quando ancora il pubblico sta finendo di affluire, un breve set di Sam Prekop, il leader dei Sea And Cake. Come nel suo recente album The Republic, si è presentato sul palco seduto davanti ad un synth modulare – un insieme di cavi, manopole, oscillatori, sequencers, filtri e limiter – col quale ha dato vita ad un unico pezzo di elettronica ipnotica e fluttuante, un affastellarsi di patterns ripetitivi in cui perdersi, tra incroci di melodie, frequenze, armonici. Una mezz’ora obnubilante, che ha diviso il pubblico tra chi con piacere vi si è immerso e chi semplicemente si è annoiato. Dovendo schierarci, stiamo coi primi.
Quasi a voler ribadire l’importanza del ritmo nella loro musica, la band di Chicago sale su un palco sul quale, insolitamente, si trovano due batterie in prima fila. Dietro di esse sono posizionate delle tastiere, ai lati vibrafoni e marimba e, sempre sullo sfondo, Jeff Parker e Doug McCombs imbracciano chitarre e basso. Il ritmo dicevamo. Nei Tortoise tutti sono multistrumentisti – durante il concerto sarà un continuo scambiarsi di posto – e ben tre di essi sono batteristi: John Herndon, John McEntire e Dan Bitney. Nella loro musica – post-rock si diceva un tempo, se mai questa sigla ha avuto veramente senso – le poliritmie sono quello che tiene assieme il tutto, l’impalcatura che regge le figure melodiche e le volte sonore delle loro canzoni strumentali. Proprio il dialogo fra le due batterie – con Herndon, muscolare ma raffinato, come presenza quasi costante – rende il sound dei Tortoise vivo e pulsante, eccitante anche nella sua a volte algida cerebralità.
Musicisti spettacolari, i cinque lasciano parlare i loro strumenti, azzerando quasi totalmente il dialogo col pubblico (giusto Bitney e McCombs hanno quantomeno detto due parole, vagamente allucinate le mimiche facciali di McEntire invece). Le folate di synth, i rintocchi degli strumenti cromatici, i fraseggi delle chitarre e le figurazioni del basso, s’insinuano tra le scansioni ritmiche, a volte di gusto krauto. C’è sempre chi vocifera di fusion parlando della loro musica – anche in questa serata – ma io non ne sono convinto. Con un’ampia parte delle quasi due ore di show occupate dai pezzi del recente The Catastrophist, dopo un paio di brani di rodaggio, per me i Tortoise hanno dato vita ad un concerto solo apparentemente freddo e calcolato. Certo, fanno paura nel loro non sbagliare neppure un colpo, nel non sporcare un passaggio neppure per caso, nella loro perfezione jazzistica. Eppure – e bastava osservare le teste del pubblico ondeggiare – le loro canzoni hanno il groove, nella loro mancanza apparente d’immediatezza riescono nel miracoloso compito di prendere anche la pancia e non solo la testa.
In fondo rimangono un enigma i Tortoise, perennemente difficile da sciogliere del tutto. Quando però, nel secondo bis, chiudono la serata magistralmente, con la morriconiana I Set My Face To The Hillside – tratta da TNT – non si può che soccombere di fronte ad un’emozione senza se e senza ma. Che continua a galleggiare nell’aria, anche quando si riaccendono le luci.