È la 26ma data – l’ultima – del tour europeo, fuori c’è un freddo cane e i musicisti, stanchissimi, debbono rimettersi in viaggio verso Milano entro l’una e trenta della notte per prendere l’aereo e tornare a casa. In altre circostanze, una serata simile si sarebbe potuta rivelare un disastro senza consolazioni, ma nelle mani del californiano d’adozione Kelley Stoltz diventa un’occasione giocherellona, affettuosa e psichedelica per scherzare col pubblico, magari compensando la fatica e la fretta con l’ironia, i giochi, le canzonature, la surrealtà dolce di una vena pop alimentata, da sempre, dal technicolor adorabile, e talvolta un po’ inquietante, di Beach Boys e Syd Barrett, Kinks e Beatles.
Sulla scia dell’ultimo, sulfureo e garagista In Triangle Time, e dell’altrettanto visionario The Scuzzy Inputs Of…, accreditato all’alter-ego Willie Weird su imperdibile vinile rosso magenta (entrambi gli album sono usciti nel corso del 2015), Stoltz si presenta al pubblico italiano raccontando barzellette sulla «mafia canadese» e spacciandosi per la reincarnazione di Hugh Cornwell degli Stranglers, dal cui repertorio arriva, a fine concerto, il sontuoso affresco wave dell’innodica Duchess: non tutto, nel corso della serata, appare ugualmente digeribile (soprattutto se l’imperativo è quello di terminare entro le 00:30 dopo aver iniziato poco meno di un’ora prima), ma almeno i riflessi migliori, lineamenti irregolari e la personalità eccentrica del caleidoscopio pop-rock dell’artista sono garantiti. Introdotto dal rock and roll a sfondo glam delle Dirty Ghosts (tra i migliori gruppi d’apertura ascoltati quest’anno), che con lui condividono batterista e chitarrista (nonché fidanzata), Stoltz si diverte, e fa sorridere gli spettatori, purtroppo esigui, esplorando con tale dedizione la propria retromania – un diorama di riferimenti agli anni ’60 che è anche un’ostinata rivendicazione della sua libertà, marginalità e identità – da sfoderare per l’occasione persino uno stridente sax giocattolo, una tastierina polverosa d’altri tempi, filtri vocali del tutto fuori moda e addirittura un triangolo, utilizzato per fini scenografici anziché per rendere più denso il già affollatissimo spettro dei suoni.
Meno “intellettuale”, rispetto ai suoi esordi, quando col primo The Past Was Faster (1999) o con l’autoprodotto Antique Glow (2001) faceva pensare a un Brian Wilson del rinascimento slacker, fantasioso e imprevedibile, geniale e privo di coordinate, pieno di inventiva e di pigrizia, il Kelley Stoltz di oggi sembra però più autentico, sebbene sempre umoristico, e perché no più malinconico e coinvolgente nei dintorni di ballate oniriche quali I Remember, You Were Wild, Marcy o la recentissima Don’t Let Your Dream Die. Più aggressivo e amareggiato, ancora autonomo e appassionatamente solitario, Stoltz continua a tirare le sue gag troppo per le lunghe (e quindi a comprimere all’eccesso deliziosi quadri psych come Kim Chee Taco Man), a trafiggere con troppi dettagli gli esempi più asciutti delle sue strizzatine d’occhi ai Sessanta (a farne le spese è il folk-rock “spaziale”, alla David Bowie, di Double Exposure), a rendere troppo verbose le sue strampalate canzoni d’amore (Litter Love è un misto tra la stand-up comedy e una lisergica filastrocca pop). Ma tra fughe acide, strumenti da bottega dell’usato, cori improvvisati sul momento, modestia spiritosa, ballate minimaliste e guizzi di comicità, una cosa è certa: squisiti deliri come questo non fanno perdere la voglia di andare ai concerti.