Quando i cinque membri dell’attuale formazione dei Sonics, dopo l’ottimo preludio fornito dalle canzoni degli spezzini Peawees (al solito molto convincenti, nonché dotati di una credibilità e di un’attitudine piuttosto insolite per il panorama italiano, nel proporre un soggettivo intreccio tra Clash e Social Distortion), salgono sul palco del Barrumba di Pinarella di Cervia (RA) per l’ultima data – l’unica in Italia – di un tour che li ha visti esibirsi in tutta Europa per cinque settimane di fila, è normale sorridere con affetto, e pure con una punta di dubbio e d’ironia, di fronte a un’età media da reparto geriatrico (si viaggia intorno ai 70 anni a testa) e a un aspetto fisico ormai del tutto inadeguato all’estetica, sempre giovane per definizione, del rock’n’roll. Ma come in altre occasioni, sono sufficienti le prime note di Cinderella – uno degli inni proto-punk più violenti e selvaggi di tutti gli anni ’60 – per rendersi conto, ancora una volta, di come il r’n’r non sia questione di pose, di esteriorità o di sembianze bensì di ruggiti interiori, delle domande sul perché si sia al mondo e su come lo si possa raccontare, e nient’altro.
Nonostante le urla dell’organista Gerry Roslie, essendosi costui dovuto rimuovere un polmone, siano oggi imparagonabili a quelle di un tempo e malgrado il sassofono e l’armonica di Rob Lind non dispongano più del fiato di allora, e suonino perciò inevitabilmente meno brutali e feroci, l’aggressione elettrica prodotta dai Sonics in un continuo ringhiare a base di r&b e adrenalina rock sembra essere rimasta quella del 1965. Sebbene il locale, concepito come una discoteca, e l’amplificazione, penalizzata dalle onnipresenti vetrate, non fossero all’altezza della situazione, a riscaldare il clima hanno provveduto l’entusiasmo del pubblico e la granitica immedesimazione dei musicisti, con il “nuovo” batterista Dusty Watson (nella band da tre anni, ma qualcuno lo ricorderà per i trascorsi al fianco di Dick Dale o dei Supersuckers) impegnato a picchiare sui tamburi a velocità disumana e la Epiphone Riviera dell’immarcescibile Larry Parypa intenta a erigere una barriera di distorsioni e fiammate all’insegna della cattiveria (e della classe). Menzione d’onore anche al bassista Freddie Dennis (Freddie & The Screamers), nemmeno lui presente nella line-up originale del gruppo (dove ha fatto ingresso nel 2009) eppure perfettamente in parte nel suggerire i tratti più cavernosi del suono e nel prendere il microfono durante i brani più isterici e spigolosi.
Dall’ultimo, strepitoso This Is The Sonics – il terzo album “ufficiale” dei nostri, a mezzo secolo (!) di distanza dai precedenti – arrivano le fucilate punk-blues di Sugaree e Be A Woman, le frustate stradaiole della The Hard Way presa dal repertorio dei Kinks, il delirio garage di I Got Your Number, il fulmicotone hard di una sanguinaria Bad Betty e il boogie urticante d’una I Don’t Need No Doctor attraversata dall’intensità di un ciclone, e per vari minuti è come se il tempo si fermasse, perché la rabbia, l’esuberanza, il divertimento e l’istinto ribelle sono gli stessi di vecchi classici quali Louie Louie (Richard Berry), Money (Barrett Strong) o le autografe Boss Hoss e Shot Down. Con un carisma naturale che nessun giovane (ma proprio nessuno) possiede, i Sonics mettono in scena un trascinante terremoto ritmico, indimenticabile nella sequenza tra le proverbiali Psycho, The Witch e Keep A-Knockin’ (Little Richard), e non si vergognano della propria fatica (evidente nell’ultima Strychnine).
Le motivazioni che li rendono, oggi, coinvolgenti e necessari come cinquant’anni fa, rappresentano l’essenza stessa, sovente perduta nelle nuove generazioni, del rock’n’roll, e riguardano la necessità di non lasciarsi schiacciare dal quotidiano, il desiderio inesauribile, forse un po’ folle, di salvarsi con la musica e nella musica, a dispetto di qualsiasi ruga, dei capelli diradati, dei problemi di salute. Senza un pizzico di urgenza e verità, ogni parabola sarebbe fallimentare: i Sonics, dai tempi in cui friggevano gli amplificatori negli scantinati di Tacoma, Washington, continuano a portarsi dietro la propria, e a condividerla con noi. Non serve altro, in fondo, per stare ancora dalla loro parte.