
MITCH RYDER
With Love
Ruf
***½
Tra i più efficaci «agitatori» della scena garage della sua Detroit, animale da palcoscenico con la grinta di Little Richard e le movenze di James Brown, Mitch Ryder è stato un protagonista assoluto di quella scena del nordovest dove la frenesia del rock and roll s’intrecciava al corrosivo r&b del settentrione americano. Da quando il migliore dei suoi epigoni – un John Mellencamp all’epoca ancora “Cougar” – gli produsse, nei primi Ottanta e dietro l’alias di “Little Bastard”, un comeback-album purtroppo largamente ignorato, Ryder si è rifatto una carriera in Germania, dove ha messo a frutto la sua capacità di tenere il palcoscenico come pochi altri tramite una serie di live a dir poco terrificanti per continuità e forza d’impatto. E sebbene non abbia mai smesso di recarsi in sala d’incisione, rispetto a quelli dal vivo i suoi pur non disprezzabili dischi in studio sono apparsi, stagione dopo stagione, sempre più malandati e raccogliticci, come se a loro volta subissero l’inesorabile incremento di un requisito anagrafico comunque impercettibile nella dimensione dei singoli show.
Questo With Love, invece, sembra invertire la tendenza, grazie soprattutto all’accorta produzione di Don Was. Il quale potrà non aver portato Ryder nei pressi del suo capolavoro della maturità (com’era accaduto, tanto per fare due esempi, con Paul Westerberg e gli Highwaymen), ma ha saputo riportarne alla luce con sensibilità e misura la mai sopita espressività soul, qui evidenziata da una serie di tracce dove lo stile raffinato della scuola di Philadeplhia (evidentissima in Sanguine) o l’enfasi melodrammatica della Motown (alla base dell’ultima Just The Way It Is) brillano di nuova convinzione.
Il Mitch dei bei tempi ruggisce ancora nel gospel scartavetrato di One Monkey (sugli anni bui della dipendenza da droghe e alcol) e nel rifferama alla Stones della sconquassante Wrong Hands, e nondimeno appare encomiabile l’equilibrio con cui Was dimostra di saperne integrare la grinta all’esercizio smooth della notturna Lilly May, al talkin’ blues con arrangiamento psichedelico di Pass It To The Right (degna di Lou Reed), allo shuffle latinoamericano di Oh What A Night o agli assoli di sax dell’introversa Too Damned Slow.
Certo, se non lo sono stati Live Talkies (1981), Never Kick A Sleeping Dog (1983) o Red Blood, White Mink (1988), non sarà With Love a rimescolare le carte del profilo artistico di Mitch Ryder: non aspettiamoci, insomma, una riscoperta mainstream da parte del grande pubblico, o un repentino ampliamento della platea dei suoi estimatori. Ma riconosciamo al titolare (classe 1945), e al suo produttore, il merito di aver orchestrato una meditazione sulla mortalità per niente gratuita o pretenziosa. E di averlo fatto, soprattutto, sottraendosi a quella routine che tutti, in fondo, gli avremmo perdonato.