
LOU HAZEL
Riot Of The Red
Sleeping Cat
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Lou Hazel nasce Chris Frisina, probabilmente con qualche ascendente italico, in quel di Olena, nello stato di New York. Ha all’attivo un solo album e qualche EP. Con questo nuovo Riot Of The Red, la naturale intenzione dell’artista made in USA dovrebbe essere quella di incrociare i favori del pubblico. Un pubblico che ama le ballate, anche un po’ rétro, capace di ascoltare con attenzione le liriche e le musiche delle canzoni, in grado di assaporare con calma e pazienza quanto gli viene proposto. Verrebbe da dire, astenersi ascoltatori di passaggio (e nell’America che oggi abbiamo sotto gli occhi il rischio della superficialità è infinito).
Già, perché la scrittura lirica e musicale di Hazel, pur essendo lui un giovane di belle speranze, è manifestamente legata agli anni Settanta, quando le parole erano importanti, i suoni rappresentavano l’imprinting del musicista, le atmosfere dovevano essere accattivanti e durature. Dopo questa premessa verrebbe da dire che la dicitura «musica per adulti» non avrebbe sfigurato sulla copertina dell’album. «Per adulti» nel senso della ricchezza della proposta, del ritorno a radici musicali, compositive e di osservazione della vita, dell’amore, della realtà, innervate nella società americana e nella poetica urbana.
Questo, in fondo, è un album al quale è possibile affacciarsi immaginandosi all’interno di un periodo storico, musicale, cinematografico e culturale di grande fermento e ricchezza, dove ogni elemento era una sorta di tassello per inquadrare esperienze, spesso condivise, che cercavano di trovare sintesi allargando il pensiero e incrementando gli stimoli per migliorare la realtà e migliorarsi come persone.
Riot Of The Red, nella sua apparente semplicità, ci riporta su passi lontani e spesso dimenticati: dieci brani che si dipanano soprattutto attraverso la diffusione di atmosfere suggestive, penetranti dal punto di vista dell’emozione, con pochi strumenti in campo – chitarre, Hammond, tastiere, steel – ma capaci di creare quell’atmosfera che attira l’attenzione di chi ascolta e fa scorrere le canzoni in attesa della successiva. Si tratta di un di un album che potremmo definire della «vecchia scuola» cantautorale, con ballate malinconiche, suoni dalle atmosfere ricche di suggestioni, sensazioni che corrono veloci davanti ad uno schermo immaginario dove potremmo percepire echi dell’Arlo Guthrie giovanile (in Country Clown), reminiscenze della colonna sonora di Dead Man (in Heat Wave), oppure fragranze degli Hot Tuna acustici (Long Sleeve Summer), sussurri alla Harry Nilsson (Nothing Here But Love).
Un lavoro ben fatto, pulito e chiaro. Alla ricerca del tempo perduto? Chissà…