BRUCE SPRINGSTEEN & THE E STREET BAND
Road Diary
Hulu/Disney+
Un lavoro come Road Diary prima o poi sarebbe stato prodotto. Soprattutto dopo gli anni senza tour di Bruce Springsteen e della E-Street Band, e anche perché l’età avanza e i consuntivi è bene farli quando si hanno memoria e lucidità. Bravo Thom Zimny, operatore di fiducia di Springsteen, a costruire un documentario calibrando set live, prove, interviste, filmati d’epoca, immagini (struggenti) del pubblico. Senza enfasi, o celebrazioni, ma con passione e rispetto dell’artista, della band, della loro storia, di quella dei fans dispersi a tutte le latitudini.
È la fine del documentario che colpisce e fa commuovere, perché si chiarisce il focus che Springsteen ha voluto dare a questa storia. Si tratta di circa quaranta secondi di immagini, contrastate dalla luce frontale del sole, dove al ritmo di In the mood una signora di una certa età balla con un signore non più giovanissimo neanche lui. Lei si propone con delicati movimenti e l’altro «danzatore», con cappellino da baseball in testa, camicia a scacchi e maniche arrotolate, pantaloni estivi corti, ondeggia lentamente e a tempo. Alla fine della musica la signora abbraccia, quel tizio, che è suo figlio Bruce, e lo bacia con grande affetto. Il documentario, dice la scritta finale, è dedicato alla memoria della sua adorata mamma, Adele Zerilli Springsteen.
Bruce Springsteen, da ragazzo, sognava di suonare davanti a folle urlanti e sentiva che fare musica dal vivo sarebbe stata la sua missione. Questo l’incipit del documentario che vede lui la E-Street Band ritrovarsi dopo anni di sosta live, dovuti anche alla pandemia, per riprendere la strada del palco, per affrontare il mondo. Si comincia con le prove della band, insieme alla sezione fiati, ai coristi e a un inedito percussionista: il ritorno di una delle più grandi della storia del rock, unitamente al suo più intenso performer. Ma le prove sono incentrate su una scaletta di brani che Springsteen ha selezionato con particolare cura, perché in quelle canzoni ha deciso di mettere la storia della sua vita e della E-Street Band, nonché lo sguardo verso il tempo che sta terminando. Uno sguardo malinconico ma non intimidito, perché tutti gli spettacoli saranno, come da cinquant’anni, un inno alla vita e alla gioia. La scaletta è il mezzo per raccontare chi è Springsteen e quale la sua storia che, poi, è quella della band e la nostra, legate da cinquant’anni di vita parallela. Inoltre, in tutti c’è la consapevolezza che il ritorno sulle scene è troppo importante: i fans, che tanto hanno atteso, non possono essere delusi per cui tutto deve essere professionale e passionale.
Passano alcuni giudizi sul caposquadra: «leader carismatico» (Garry Tallent), «l’uomo che ha riportato in vita il rock» (Max Weinberg), «l’uomo più introverso che abbia mai conosciuto» (Steve Van Zandt), insieme al ricordo degli insostituibili Clarence Clemons e Danny Federici. È il tour del 2023 quello immortalato dal documentario, un tour per il quale Springsteen è ferreo nelle prove ma, al contempo, lascia a VanZandt il compito di perfezionare i brani nominandolo «direttore musicale»; ruolo al quale “Miami Steve” fa capire di essere «abituato da quarant’anni». Springsteen è un musicista che sa esattamente cosa fare. Ha a disposizione, parole sue, la band migliore del mondo, che sul palco farà quello che serve per costruire, con lui, altri grandi concerti. Le prove, inoltre, servono alla band per affinare il feeling (soprattutto per la presenza della sezione fiati e il coro) dopo tanto tempo e al leader per capire come costruire, sul palco, le alchimie necessarie al miglior risultato.
E quando, a Tampa, parte la prima data del tour il sorriso che appare sul viso di Springsteen all’ingresso sul palco è il prologo al compimento delle aspettative di gioia da parte del pubblico. Tutto è iniziato nel migliore dei modi. La band è efficace, esplosiva, felice di esprimersi al meglio e di osservare il pubblico che sembra partecipare «a un concerto spirituale dove quel palazzetto diventa la loro chiesa» (dice Albert King). Come aggiunge Springsteen, non si capisce mai la potenzialità di una canzone finché non la si canta davanti al pubblico. Scorrono le immagini del concerto, con Springsteen che mostra le sue abilità di provetto chitarrista, la sua Fender Esquire a mandare bagliori di luce mentre Weinberg, alle sue spalle, con il suo possente drumming lo segue come un’ombra. La felicità e la commozione del pubblico che salta, canta, piange rappresenta uno spettacolo nello spettacolo e la band ne riconosce la potenza empatica e la bellezza.
La scaletta, come si è scritto, non è casuale: è la storia di Springsteen, e le quattro canzoni tratte da Letter To You sono brani che guardano al tempo che passa, all’approssimarsi dei giorni estremi. Allo stesso tempo, quelli proposti sono brani che «vincolano» ancor di più all’amicizia, alla coesione, alla fraternità tra il pubblico e la band e fra la band e il suo leader, tanto che prima di ogni concerto, nel backstage, tutti i musicisti si mettono in cerchio stringendosi le mani e Springsteen ha il compito di rincuorare tutti con un suo sempre originale «sermone benedicente».
Road Diary propone anche immagini datate, alcune in b/n, nelle quali vengono ricordati i mezzi coi quali viaggiava la band all’inizio dei ’70: station-wagon, piccoli bus, camper, con Clarence che preparava la colazione per tutti dopo una notte trascorsa a riposare in maniera straordinariamente scomoda e «avventurosa». Tornano alla memoria dei musicisti anche concerti particolari, per esempio quelli tenuti in piccoli locali, se non bettole: quello in una raffineria, oppure in un parco con dieci spettatori. Ore e ore di viaggio, quattro di concerto, altre lunghe ore per tornare a casa in attesa di una gloria che stentava ad arrivare ma con la fiducia in quell’artista di talento capace di trascinare sempre tutti ovunque e comunque.
Fa tenerezza la dichiarazione di Patti Scialfa in merito al mieloma che la costringe alla massima attenzione per salvaguardare il suo sistema immunitario così come l’interpretazione di Fire, accanto al marito, un’intensa dimostrazione di affetto. Se il tour americano è stato una grande esperienza per Springsteen e la band, anche il tour europeo non è stato da meno e una particolare menzione va al pubblico di Barcellona, una città che da sempre restituisce in maniera travolgente la passione per Springsteen: come affermano alcuni spettatori dei suoi concerti, gli springsteeniani non sono solo fans, ma si sentono una comunità che afferma, con sentita convinzione, «siamo cresciuti insieme e stiamo invecchiando insieme», a certificare il grande attaccamento all’indomabile diavolo del New Jersey.
E quando parte il duetto tra il Boss e Van Zandt circa la possibilità di abbandonare il palco perché l’ora si è fatta tarda, il pubblico risponde a modo suo manifestando la ovvia avversione alla chiusura del concerto e, anzi, incitandoli a proseguire. Cosa che la band compie sempre con grande piacere perché non puoi interrompere una magia… Vengono mostrate immagini di aerei in volo tra una città e quella del concerto successivo, con Weinberg che indica in numero di quaranta le chitarre che Springsteen si porta dietro, mentre all’inizio ne possedeva solo una: anche questo un segno del tempo che passa. C’è la presenza di Kevin Buell, colui che custodisce e gestisce le chitarre di Springsteen e ha il terribile compito di afferrarle al volo quando questi si volta e gliele lancia.
C’è la testimonianza di Jake Clemons a ricordare lo zio, il mitico Big Man, che con il suo sassofono ha dipinto a tinte forti decine e decine di canzoni. Ci sono i volti intensi, o distesi, a seconda del momento, dei musicisti; la testimonianza di Garry Tallent che racconta della diffidenza iniziale di Springsteen nei suoi confronti, oppure quella di Charlie Giordano che, con grande sapienza e delicatezza, ha preso il posto di Danny Federici. Nils Lofgren ricorda il suo ingresso nella band, a trentanove anni, per rimpiazzare la defezione temporanea di Van Zandt e poter così partecipare al tour di Born In The U.S.A. Arriva anche il momento del soul, da sempre un elemento ispirativo di Springsteen, con Night Shift, il brano col quale, come sottolinea un commosso Jon Landau, si ricordano le figure di Clemons e Federici. Una canzone cantata con l’anima da Springsteen, coadiuvato da Albert King e sostenuto dal coro e dalla potenza della sezione fiati.
Arrivano le immagini di Kitty’s Back, uno dei brani in cui l’improvvisazione è di casa e dove si possono ammirare le doti chitarristiche di Springsteen e la resistenza fisica di Weinberg, sempre a un passo dal crollo fisico che, comunque, non arriverà mai. E dopo aver visto le immagini del pubblico (di ogni età) saltare, cantare, sbracciarsi, esaltarsi, ridere, piangere di commozione, arriva il momento di Last Man Standing, la canzone dedicata all’amico George Theiss, deceduto nel luglio del 2018, che faceva parte della prima band in cui suonò Springsteen, i Castiles; un brano in cui si ricorda come sia lui, Springsteen, «l’ultimo rimasto» di quella band di cinque amici. Delicata, piena di pathos e commozione, Last Man Standing si intreccia a un’epica versione di Backstreets dove il sentimento di Springsteen per l’amico scomparso (anzi, “gli” amici) si manifesta in tutta la sua commozione: «Lo porterò qui con me» dice, toccandosi il petto più volte.
Le immagini scorrono su una tonante versione di Born In The U.S.A. e il pensiero corre al disastro delle elezioni statunitensi e alle chiare, dirette, inequivocabili parole di Springsteen nei confronti di Donald Trump («un dittatore, un uomo che non conosce il valore della nostra Costituzione») e il sostegno al voto per Kamala Harris. Un invito che non è servito alla candidata democratica ma ha definito, ancora una volta, le opinioni di Springsteen nei confronti della democrazia e dell’autocrazia. Come sempre, con coraggio, senza paura.
Il brano finale è lasciato alla chitarra acustica, all’armonica e all’interpretazione profonda e malinconica di I’ll See You In My Dreams, con il coro finale del pubblico e le parole che tutti si aspettano: «E-Street band loves you». Le immagini finali vedono Springsteen accompagnato da sue riflessioni che ne sottolineano il desiderio di continuare a suonare, con la sua band, fino a che sarà possibile e a portare vitalità, energia, sorrisi, serenità nelle vite di ciascuno dei suoi estimatori. A questo suo impegno crediamo senza condizioni perché lo ha sempre fatto, perché è stato sempre onesto e leale con il suo pubblico.
C’è anche spazio per una citazione di Jim Morrison, scritta su un’immagine fissa dell’area dell’autodromo di Monza, che recita: «O grande creatore dell’Essere, concedici un’altra ora per presentare la nostra arte e per perfezionare le nostre vite». A suggellare questa preghiera laica arrivano i primi piani di tutti i musicisti coinvolti nel tour, lasciando che la carrellata si concluda con lo sguardo sornione di Steve Van Zandt, un’enciclopedia vivente della musica rock. La sequenza dei titoli di coda ha come sonoro la mitica Tenth Avenue Freeze-Out, dove la potenza della leggendaria E-Street Band si manifesta come solo i grandi musicisti sanno fare e le note ci riportano a quell’anno fatale, il 1975, che avrebbe potuto rappresentare la fine dei sogni del ragazzo del New Jersey e invece lo ha incamminato sulla thunder road.
Si finisce con l’abbraccio di una mamma al proprio figlio che, in tempi duri, difficili anche di gravi difficoltà economiche non ha lesinato fare piccoli debiti pur di comperargli una chitarra. Mai acquisto fu più benedetto.
Ultima nota: le immagini dei concerti dal vivo presenti nel documentario sono tratti dalle esibizioni nelle città di Dublino, Londra, Monaco, Oslo, Roma e Monza. Un ringraziamento va a Claudio Trotta e alla sua Barley Arts per averci consentito, per anni, di assistere ai concerti di una leggenda e dei suoi scudieri.