Quando certi musicisti creano il personaggio intorno a loro, è forse difficile scindere l’immagine cucita addosso dal compito assegnato, ossia portare a casa un set che viva sì di fuoco e fiamme, ma che avvalori mestiere e qualità per non scadere in una banale messa in scena. Così, a uno come Seasick Steve si riesce a perdonare anche l’esagerazione, perché quando mette mano ai suoi strumenti da battaglia, Dio sa se suona questo benedetto uomo.
In brigata con il fido Magnusson, compagno di avventure da ormai sedici anni (e individuo in grado «di scovare in qualunque angolo del mondo un negozio di vinili senza mai uscirne mani vuote»), Steve continua a comporre il puzzle di un tour europeo che nel solo Ottobre ha toccato Belgio, Olanda, Repubblica Ceca e Polonia. Tournèe che vedrà un continuum tra Svizzera, Germania, Francia e Regno Unito, prima che il musicista si conceda una vacanza lunga a Byron Bay, nell’emisfero sud, dove non amando il freddo «dedicherà giornate intere sulla spiaggia a osservare le belle ragazze di passaggio».
Italia esclusa, dunque, non resta che raggiungerlo, con annessa gita, in una città fissata nella serie di spettacoli previsti. Praga, per chi scrive, sembrava essere una buona meta e in effetti Steve non fa che soddisfare ogni aspettativa con una scaletta dal corpo sostanzioso e carico di adrenalina.
L’apertura di serata, nella graziosa sala del Lucerna Music Club, è affidata al giovane James Dixon, compositore, chitarrista e narratore, originario della Cornovaglia, di cui canta amorevoli radici. James veste fortissime influenze folk che combina con la passione per la slide e il profondo blues del Delta, accomunando alla star della serata l’uso diversificato di signature cigar box, foot tambourine, stompbox e un’ottima voce. Una manciata ricca di brani originali e una bella cover di Chris Whitley, poi lo spazio al cambio set, un poco lungo a dire il vero, ma verso le 21 un brillante Maldimare Steve presenta il suo sorriso al nutrito pubblico.
La partenza è esplosiva, con una My Donny travolgente da quel primo album ufficiale che fu Dog House Music, quasi fosse necessario subito chiarire la bollente direzione dello show e l’ingresso di Dan Magnusson, braghe corte e occhiali da sole anni ’70 sul secondo pezzo, Don’t Know Why She Love Me But She Do, ad amplificare le già pericolose e allucinate arie della fervida atmosfera tutta intorno. Un duo dall’incredibile imponenza, magnetica ed energica a mostrare i denti su una carrellata di versioni idrofobe dall’intero repertorio: Back Bonem Slip, dall’ultima creatura nata, all’anima downhome di una St. Louis Slim di ormai 10 anni fa, dalla recentissima Soul Food, polemizzando con il cibo spazzatura dell’odierna società standardizzata, alla Roy’s Gang del superbo Sonic Soul Surfer, album che regalerà alla fortunata lì sul palco nell’intermezzo acustico di Walkin’ Man (come suo solito, durante questo brano Steve usa fare posto a una ragazza che preleva dal suo fidanzato nelle prime file, per verificare, dice, come lui la guardi in quel lungo momento).
Il suo set rimbomba a un ritmo costante, Steve si alza dalla sedia, muovendosi dannato vicinissimo al suo pubblico. Nessuna pausa, se non nei mistici racconti da vecchio menestrello di luoghi perduti, come quando, introducendo Barracuda, ci rivela quanto “cool” voleva essere gironzolare per i campi assieme ai suoi amici con la Plymouth del ’57, i fari accesi nel buio della sera e un registratore a otto tracce in auto che sparava Jimi Hendrix a massimo volume… per attirare le ragazze, una modalità che mai ha funzionato. Oppure ricordando come da ragazzo, quando abitava su di un isolotto in Washington State per andare verso il continente doveva prendere il traghetto e ve n’era uno il cui motore produceva un rumore molto caratteristico, come il ritmo di una canzone. «Assieme ai miei amici, ci divertivamo a suonare seguendo quella cadenza particolare, e pensando di attirare gente, ma la gente puntualmente se ne andava dalla parte opposta».
Divertente, ironico e pungente, a volte, quando parla di politica e musica liquida, oppure di quanto oggi sia difficile il contatto umano. Ma Steve non è un abile intrattenitore solamente: dalla faretra di strumenti estrae ogni tipo di diavoleria, illustrandone origine e funzione, ma sopra a ogni cosa mostrando il loro suono irresistibile nei saliscendi di ogni brano. Dal suo One String Diddley Bow, costruito su una tavola di washboard e suonato con un ditale da cucito, a una targa di metallo con su scritto Mississippi State inchiodata a un pezzo di legno malandato, messo assieme con la manopola del finestrino di una Chevy, una lattina di mais e un manico di scopa, fino alla sua amata Trance Wonder rossa, ancora con tre corde e nessuna aggiunta. «It’s just a piece of wood» dice imbracciando le sue chitarre malandate giapponesi, artigianali, non importa da dove provengano, ciò che conta è saper suonare, e Steven Gene Wold è lì a confermarlo.
Una bambolina voodoo che penzola da un manico e l’immancabile slide di metallo che scivola su un eccitante groove. Non c’è bisogno d’altro: ritmo, audacia e un grandissimo dominio da parte di un berserker vagabondo che gira intorno alla materia blues più grezza lasciando credere che abbia whisky nelle vene al posto del sangue. Steven gioca sul suo personaggio così come sa suonare la chitarra, quel tenace musicista che si arrese solo a un forte mal di mare su un battello in viaggio tra Norvegia (patria della sua seconda moglie) e Danimarca, episodio che gli valse il soprannome.
Ancora oggi, accanto a Crazy Dan, smuove le budella della sua platea, lasciando che gli integralisti vivano il loro mito di feticci duri e puri, ma scherzando con acume sulla sua figura, con quel look da farmer, il suo cappellino John Deere verde e la bottiglietta di Jack Daniel’s sempre al suo fianco (solo del tè, ci scommetterei…), e sapendo che poi conta solo il quadro, la big picture, il cuore, il fulcro e la sostanza.
D’altronde il rock vive anche e soprattutto di scomode storie. E allora Seasick Steve balla su quel palco, simula lo scratch in un crescendo ipnotico fino al delirio sull’ultima canzone prima dell’encore, un’incendiaria Bring It On, appena il tempo di riprendere un po’ fiato, per poi ricomparire con la chitarra acustica e stendere un sermone su quanto l’America lo abbia deluso.
Si scusa per come è la sua terra oggi, «Non è possibile che il meglio da poter esprimere siano Trump e nessuna alternativa o Trump e Hillary Clinton solo qualche anno fa». È da tempo che l’America non lo fa più sognare e ricorda di Bob Kennedy quando parlava alla TV, o di Martin Luther King e il suo messaggio universale. «E’ mai possibile che tutti coloro che fanno sognare fanno una brutta fine? Con Trump non hanno avuto che una brutta mira, invece». Velenoso, ma sincero il nostro Steve. E il suo encore diventa una meravigliosa voce sull’arrangiamento di Abraham, Martin e John, il brano scritto da Dick Holler in quel triste e famoso 1968.
Se è vero che il pacchetto è in conto vendita, c’è anche talento e abilità. Steven Gene Wold e Dan Magnusson fanno quasi centocinquant’anni in due, ma questa coppia di cocciuti bluesman ne ha così di storie da raccontare ancora.