Recensioni

Mojo Man, Love & Revolution

MOJO MAN
Love & Revolution
CRS
***

Dopo i The Tibbs (con intervista alla cantante Suzanne Hartog sul Busca di agosto), torniamo ad occuparci di un altro super gruppo olandese, di Groningen per la precisione. Stiamo parlando dei 
Mojo Man e del loro ultimo lavoro discografico intitolato Love & Revolution.

I Mojo Man sono composti da Reinier Zervaas, Henk Brüggeman, Emiel van der Heide, Robin Bogert e Marco Muusz, accompagnati dalla granitica sezione ritmica di Mark Eshuis, Dennis Hemstra, Patrick Cuyvers e Bas van der Wal. Al microfono, il carismatico cantante e chitarrista Marcel Duprix. Il loro stile blues, rock e soul è fortemente influenzato dai suoni degli anni ’60 e ’70. Il rock and roll americano e il soul britannico sono tratti distintivi inconfondibili. Il loro sound richiama il passato, ma che passato! Dagli Stones d’annata a Otis Redding e Led Zeppelin, modernizzati e dinamicizzati, ma con quel giusto e sporco retrogusto che sa di antico senza indugiare nella nostalgia.

Il «tiro» di quest’album lo si intuisce dalla botta adrenalinica dell’iniziale Love Revolution, con un Hammond introduttivo a fare da cerimoniere alle altre bocche di fuoco, soprattutto i fiati che infiammano l’aria già resa elettrica dalla ritmica delle sei corde. Un pezzo R&B grezzo quanto basta, che non lascia spazi a dubbi: qui la qualità non è un optional. Rock-blues nella successiva Happiness, con richiami alla J.Geils Band da parte della voce bagnata dal whisky di Duprix a renderla importante.

Dopo il lentone soul Jealous e la successiva Some People, entrambe ispirate alla tradizione di Muscle Shoals, è la volta del crescendo continuo di The Losing Blues, culminante in un assolo di chitarra alla Mike Zito che lascia il segno. Divertenti gli oltre 3 minuti di Sexy Lady, con un ritmo funky-soul stile Primal Scream, e il rhythm’n’blues di R.I.P., che di funebre non ha proprio nulla. Tra i brani più originali indichiamo Utopia, un soul rock up-tempo difficilmente etichettabile (ma non vorremmo nemmeno farlo), dove le tastiere trovano poco spazio per dare vita a un difficile patchwork di suoni compositi, prodotto da chitarre e fiati con un uso della voce anch’esso particolare. Tra i brani forse di maggiore impatto, il bluesaccio Before We Forget, che si smarca dal resto del lavoro con la prima parte dedita a ricami blues di chitarra acustica e armonica, la seconda un vortice di strumenti dalle sfumature quasi progressive.

Dopo il rock-soul di UntitledSeventeen, l’album — il secondo della loro carriera dopo quello prodotto nel 2017 — si chiude con Revolution, forse il pezzo migliore e quello che meglio incarna lo spirito di questo gruppo, un rock-blues alla Zep con chitarre e voce in palla e il resto della band a fare da fortunati comprimari. Ricordandosi (noi con loro) di passioni musicali indomabili.

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