In Concert

Lankum live a Bologna, 19/10/2024

Nonostante quest’anno li avessi visti già due volte, nella loro Dublino come headliner del bellissimo festival da essi stesso curato, In The Meadows, e in Inghilterra, all’End Of The Road, e anche se costretto a partire nel tardo pomeriggio per impegni precedenti, non mi era parsa per nulla una cattiva idea tornare a vedere nuovamente i Lankum in concerto, muovendomi da Milano verso Bologna. Del resto, si sa, difficile mettere un argine alla passione e, fin da quando li ho scoperti, la mia nei confronti del quartetto irlandese è sicuramente di quelle speciali. Insomma, anche se trattavasi di una toccata e fuga, la trasferta ci stava tutta e pazienza se le previsioni del tempo davano brutto tempo, addirittura allerta rossa. È un po’ l’incoscenza degli appassionati, dovete capirmi. 

Il concerto faceva parte della programmazione del sempre ottimo Barezzi Festival, storicamente con sede a Parma, ma quest’anno dislocato anche in altre città. I Lankum suonavano nel bel Teatro Celebrazioni, non proprio in pieno centro, pertanto abbastanza facile da raggiungere. Quando entriamo, fuori la pioggia continua a scendere battente e forse è anche per quello che non proprio tutti i posti sono occupati, nonostante ci siano persone venute da tutta Italia, a dimostrazione dell’affetto che ormai li circonda (lo dico con cognizione di causa, visto che ho incontrato amici provenienti dalla Sicilia, così come da Roma e Firenze).

Che non tutto stia filando liscio s’inizia a intuirlo nel momento in cui parte ad accumularsi un po’ di ritardo rispetto all’orario annunciato, le 21. Si assiste a un via vai di persone che si muovono verso il retro palco e a un certo punto vengono annunciati dei problemi tecnici. Un pizzico di timore serpeggia, ma nulla di troppo esagerato, anche perché alle 21.45, con ancora il sipario calato, partono le prime note di The Wild Rover. Come sempre, i quattro Lankum suonano tutti seduti e sulla stessa fila, coi due fratelli Ian e Daragh Lynch agli estremi e Radie Peat  e Cormac Mac Diarmada al centro. Dietro di loro c’è una percussionista, Eleanor Myler, tra l’altro membro di quegli ØXN dei quali fanno parte anche Radie e il produttore dei Lankum stessi, John “Spud” Murphy, stasera non presente sul palco, al contrario delle performance viste durante l’estate.

La mancanza di Spud rende il loro sound meno rumoroso e più acustico, ma non per questo meno potente in termini d’immaginifica visionarietà. Lo si è ormai detto più volte: nella loro musica, l’idea che portano avanti di musica folk è contemporaneamente radicata nella tradizione, trattata con incredibile rispetto, ma allo stesso tempo proiettata verso una radicale rivisitazione della stessa, così da renderla materia viva e pulsante nell’oggi, non una cartolina ingiallita che raffigura qualcosa che non c’è più. Sanno bene, i quattro, che certi temi sono oltre il tempo e che la folk music è sempre stata per natura mutevole, in grado di cambiare in base al luogo e agli imbastardimenti culturali. È così che le bordate di suono che fin da subito irrompono, ad esempio, in The Wild Rover, cristallizzano in pieno un’inquietudine che è tutta nostra e non relegata in un tempo remoto, anche se quasi sempre antichi sono gli strumenti che utilizzano per realizzarle (cornamusa, violino, concertina, flauto irlandese, chitarra acustica, harmonium, un basso a pedali, tamburi, grancassa).

Le ultime parole della battente e viscerale The New York Trader («Vi prego di prendere nota di un avvertimento/Se amate la vostra vita/Non andate mai in barca con un assassino») echeggiano quello che Ian Lynch dice dopo, nel momento in cui eseguono una The Rocks Of Palestine, chiaramente solidale con le sofferenze del popolo palestinese («Resta sempre una gran brutta idea unire le forze con chi ammazza donne, bambini, persone. Lo sapevano persino i contadini del secolo scorso»). Come si diceva, i pezzi dai Lankum arriveranno anche in larga parte dal passato, ma in tutto e per tutto hanno a che fare con noi. Da questo punto di vista, quantomeno al pari di una band come i Godspeed You! Black Emperor, con i loro intensi e dilatati drone, con le loro a volte spettrali litanie corali, con il loro essere tutto meno che accomodanti, tra le band contemporanee sono tra le più efficaci a mettere in musica questi tempi infami e ingiusti.

Non che non siano anche capaci di delicatezza e tenerezza, e subito dopo lo dimostrano con una The Young People di rarissima e intima poesia, suonata quasi in punta di piedi, prima di sfociare in una Rocky Road To Dublin che a sua volta si sfalda nella strumentale The Pride Of Petravore, illuminata nel finale da una citazione della melodia di We Work The Black Seam Together, pezzo di Sting che stava sul suo primo album solista, The Dream Of The Blue Turtles

Radie Peat, che parla benissimo in italiano, avendo anni fa vissuto proprio a Bologna, ci confessa la sua grande emozione nell’essere qui e la sua gratitudine per il fatto che siamo accorsi in una serata tempestosa come questa. Meno piacevole è scoprire che dietro al palco si agitano i pompieri, pronti a sospendere il tutto perché lo scantinato del teatro si sta allagando e la situazione si sta facendo potenzialmente pericolosa.

«Continueremo a suonare fintanto che possiamo» dice Daragh Lynch. Ecco dunque rimanere il tempo giusto per la bellissima e straziante Go Dig My Grave e per la chiusa folk, stavolta tutto sommato abbastanza tradizionale e irish, con Bear Creek, prima di dover abbandonare le nostre poltrone e uscire. «Torneremo d’estate» ci dicono i ragazzi, ed è bello credergli.

Rimane un pizzico d’amarezza perché il tutto s’è consumato in una sola ora, immagino per la band stessa vissuta non del tutto serenamente. Poco da lamentarsi, a dire il vero, perché comunque si è trattato di un’ora bellissima e perché di lì a qualche ora, il maltempo ben altri danni creerà, rispetto all’interruzione di un concerto.

Il diluvio che ancora imperversa fuori non basta a dissipare le emozioni, ma rende assai arduo raggiungere l’autostrada per tornare a casa, tra strade chiuse, viadotti allagati e traffico in tilt. Il giorno dopo si verrà a sapere di persone sfollate e dell’ennesima sequenza di storie tragiche, alle quali non è giusto abituarsi, anche quando si ripetono con questa francamente inquietante frequenza. Forse, soprattutto per questo.

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