DAVID THOMSON
La Fatale Alleanza:
Un Secolo Di Guerre Al Cinema
Jimenez, Roma, pp. 486, € 24,00
Gli ultimi due anni, purtroppo, saranno ricordati come quelli in cui l’occidente «sazio e disperato», e in particolare un’Europa dove i partiti neo-nazisti si riproducono alla velocità della luce, si è risvegliato dal torpore e dall’illusione di una seconda metà del ‘900 (nonché di un primo ventennio del secolo susseguente) incontaminata rispetto allo scoccare di eventi bellici di varia natura. Come se, al di là della guerra in Ucraina, il conflitto israelo-palestinese non fosse in corso (con variazioni di intensità) da decenni, o come se, cercando di allargare lo sguardo, il bombardamento di Belgrado e i vari «interventi umanitari» condotti nella ex-Jugoslavia, le guerre in Yemen e Siria, i continui colpi di stato in Africa e Birmania, il permanente stato di crisi dell’isola di Haiti, la guerra civile colombiana o l’ininterrotto conflitto tra India e Pakistan per il controllo del Kashmir (tanto per citarne alcuni), rappresentassero o avessero rappresentato un lontano mormorio, troppo sommesso per mettere in discussione le nostre comodità e i nostri stili di vita.
I nuovi media, e soprattutto la comunicazione via social, hanno del resto modificato radicalmente — in parte rendendolo forse più consapevole, in parte sicuramente anestetizzandolo — il nostro rapporto con la violenza delle immagini provenienti dai teatri di guerra, ormai così numerose, sovrabbondanti e non filtrate né mediate da costituire, per paradosso, non una fonte di approfondimento bensì un veicolo di rimozione collettiva. Può darsi, insomma, che il filosofo francese Jean Baudrillard, nel sottolineare l’equivalenza tra un’ipertrofica rappresentazione mediale delle guerre e un’involontaria, conseguente «smaterializzazione» delle loro cause e dei loro effetti (con l’alluvione di foto, testimonianze audiovisive spontanee, filmati realizzati col telefono, riprese embedded da parte degli eserciti e servizi dei telegiornali a spersonalizzare, anziché rendere più reale, l’esperienza del conflitto) non avesse poi tutti i torti.
In questo contesto, assume particolare rilevanza il saggio La Fatale Alleanza: Un Secolo Di Guerre Al Cinema, pubblicato nel 2023 dallo studioso britannico David Thomson e uscito quest’estate anche in Italia: una voluminosa riflessione, senza il vizio delle liste o dell’inventario dei titoli (ma un indice degli stessi gli avrebbe comunque giovato), sulla seduzione e al tempo stesso sull’effetto di repulsione provocato da cent’anni di film a sfondo bellico, analizzati nella convinzione che il cinema, per sua natura, possa e debba creare fotogrammi meno accomodanti, meno rassicuranti, meno biecamente propagandistici di quelli invece propalati dalle videocamere di telefoni magari influenzati dall’interiorizzazione delle immagini viste in pellicole come Black Hawk Down (2001) di Ridley Scott o Fury (2014) di David Ayer, con Brad Pitt nei panni dell’impavido sergente alla guida di un’unità militare pronta a misurarsi contro trecento soldati tedeschi.
I lettori italiani ricorderanno l’oggi ottantatreenne Thomson per il suo La Formula Perfetta: Una Storia Di Hollywood (risalente al 2004 ma arrivato da noi, per i tipi di Adelphi, nel 2022), affascinante immersione nell’epopea della «fabbrica dei sogni» svolta prendendo le mosse dall’immortale Chinatown (1974) di Roman Polański e nello specifico dallo script ideato per il film da Robert Towne, splendido sceneggiatore (spesso uncredited) di non troppe ma bellissime opere scomparso nella sua Los Angeles lo scorso luglio. In questo nuovo libro, invece, pur senza rinunciare allo stile diacronico delle sue indagini epistemologiche, il critico scende nelle profondità di cosa significhi affrontare uno dei mali endemici della società umana, appunto la guerra, tramite un mezzo di propagazione visiva — il cinema — naturaliter propenso alla spettacolarizzazione, all’adrenalina, all’esibizionismo.
In tempi come questi, appare quasi insolito (certamente singolare) trovarsi in mano un trattato così ossessionato dalla «finzione spericolata e disinibita» cui tante, troppe immagini prive di qualsiasi dimensione etica hanno assicurato pieno diritto di cittadinanza, al punto da trasformarci — noi spettatori — in «consumatori insensibili» e quindi, per questo motivo, in «cittadini impotenti». A qualcuno potrà sembrare una posizione all’insegna del facile moralismo, ma soffermarsi con tale e tanta attenzione sulle strategie della rappresentazione messe in atto da una discussa pietra miliare come Il Trionfo Della Volontà (Triumph des Willens, 1935) di Leni Riefenstahl, pura propaganda nazista, confezionata però con straordinario talento visivo e tecniche di ripresa avveniristiche, e da lì costantemente mettere in guardia il lettore sull’ambiguità intrinseca a un certo uso delle immagini, adoperate «come armi», significa anche — per fortuna — non sottovalutare le sospette somiglianze tra le sequenze di due lavori della regista Kathryn Bigelow, il muscolare The Hurt Locker (2008) e il (molto) meglio riuscito Zero Dark Thirty (2012), e i sinistri video di propaganda caricati in rete dall’Isis.
Giusto per ribadire la più spiazzante eterogenesi dei fini: l’attrazione esercitata da immagini che, a forza di calcare la mano sul parossismo, finiscono per descrivere la guerra come una specie di esercizio videoludico, non funziona soltanto con le reclute americane sottoposte alla visione di Salvate Il Soldato Ryan (Saving Private Ryan, 1998), ma anche con gli aspiranti martiri della jihād islamica. Inaugurando quel film con le immagini annichilenti dello sbarco in Normandia, ancora insuperate per barbarie visiva, violenza sanguinaria e macelleria sonora, il regista Steven Spielberg avrebbe voluto esprimere tutto il proprio e definitivo orrore per la mai giustificabile atrocità della guerra, e invece il suo lavoro è diventato uno sponsor per l’arruolamento di giovani matricole desensibilizzate da schermi — grandi, piccoli o piccolissimi — che li inducono a confondere realtà e videogiochi.
Al tempo stesso, gli attentatori suicidi, utilizzati tatticamente dai loro spregiudicati mandanti, hanno trovato nei film americani a loro ostili un ulteriore pretesto di esaltazione e incoraggiamento. Anche per questo sorprende l’indulgenza di Thomson verso They Shall Not Grow Old (2018), documentario sulla Prima Guerra Mondiale realizzato dal neozelandese Peter Jackson, in collaborazione con la BBC, manipolando, spettacolarizzando, colorando digitalmente, semplificando e sensazionalizzando 100 ore di girato dell’epoca e 600 di interviste ai sopravvissuti: perché se un’immagine «autentica» non è necessariamente un’immagine «giusta» (concetto da tenere a mente davanti al preteso, «accresciuto» realismo, in realtà assolutamente artificioso, di titoli come 1917 [2019] di Sam Mendes o Dunkirk [2017] di Christopher Nolan), di certo un’immagine manomessa non contribuisce né a inchiodare né a svelare la vera natura, umana per quanto feroce, della guerra.
Per questo piace veder citato, nel volume di Thomson (anche se ognuno avrà da ridire circa eventuali assenze o dibattute presenze di questo o quel titolo), un capolavoro assoluto e, purtroppo, ingiustamente dimenticato, come La Vita E Niente Altro (La Vie Et Rien D’Autre, 1989) di Bertrand Tavernier, sull’identificazione dei morti e dei dispersi, due anni dopo la Grande Guerra, lungo le pianure di Verdun: l’autore lo definisce «un film sulla sepoltura e sulla resurrezione», apprezzandone lo spirito pacifista sebbene allergico all’enfasi, la rappresentazione laconica di un quotidiano inevitabilmente impregnato di sangue benché questo scorra raramente, la dignitosa messa in scena di uno strascico — 350’000 dispersi per la sola Francia — capace di farci percepire la sadica crudezza del conflitto pur non mostrandolo.
E proprio quest’alta e condivisibile considerazione per il film di Tavernier fa sorgere nel lettore un po’ di dispiacere per il «capitolo mancante», diciamo così, all’interno del saggio in ogni caso informatissimo, affabulatorio e appassionante di Thomson. Quello, cioè, dedicato a chi torna e cerca di sopravvivere (o si arrende all’incapacità di farlo), tema ovviamente sfiorato a più riprese ma in effetti privo, nelle pagine di La Fatale Alleanza, di una trattazione sistematica. Non si tratta, del resto, di una pecca del libro, altresì imperniato sulla relazione tra cinema e guerra, sullo spettacolo di quest’ultima e non sulle ripercussioni durature o transitorie, spesso di natura psicologica, da cui è affetto chi vi abbia preso parte (nel ruolo della vittima o in quello del carnefice).
A posteriori, però, sarebbe stato interessante sapere cosa ne pensi Thomson, per esempio, dello splendido e sottovalutato Brian De Palma di Vittime Di Guerra (Casualties Of War, 1989), altro film sparito dai radar della critica eppure abilissimo nel trasformare un caso di denuncia civile — un soldato americano vuole denunciare i commilitoni colpevoli di aver violentato e poi ucciso una ragazza vietnamita — in animalesco gioco di specchi tra due visioni della realtà talmente opposte da ricongiungersi nella consapevolezza di come le «vittime», in qualsiasi guerra, non siano solo i nemici abbattuti sul campo o i cittadini deceduti, ma anche gli stessi assassini, soldati semplici o gerarchie militari condizionate da un’ideologia predatoria e disumana.
Chissà, inoltre, se Thomson ricorda I Visitatori (The Visitors, 1972), penultimo e oggi trascuratissimo film di Elia Kazan, anch’esso incentrato sul famigerato «incidente» della collina 192 alla base del lungometraggio di De Palma (quando una squadra statunitense appunto rapì, stuprò e infine sparò in testa alla ventunenne Pan Thi Mao), del quale mette nondimeno in scena gli esiti, ritraendo la visita di due ex-soldati, reduci da due anni di carcere, alla casa di un soldato del loro stesso plotone che li aveva denunciati per abusi di natura sessuale. Ambientato per intero in una casa, piuttosto isolata, sepolta nelle nevi del Connecticut, il film di Kazan (tra i primissimi a mettere in scena reduci dalla guerra in Vietnam, inaugurando così quello che diventerà un filone a se stante del cinema americano) sfrutta magistralmente la claustrofobia degli interni, e le ristrettezze del budget, per dispiegare un verbosissimo, inesorabile e per larghi tratti insostenibile crescendo di tensione psicologica nel quale i soldati, nonostante la detenzione correttiva ormai programmati per ogni genere di efferatezze, finiranno per ammazzare il cane dell’ex-commilitone, pestarlo a sangue e stuprarne la giovane moglie. Al di là della compostezza sapiente di Kazan nel delineare il progressivo inasprirsi dei soprusi verbali e il continuo esasperarsi delle provocazioni psicologiche (esacerbate dalla simpatia nutrita nei confronti dei potenziali aggressori dal suocero militarista e reazionario, sprezzante verso la ragionevolezza e la mitezza del genero), a colpire ancora, nel film, è soprattutto il clima di inaudita cupezza, il drastico pessimismo adoperato per raccontare una società allegorica definitivamente inquinata dal lascito traumatico di eventi (già) impossibili da esorcizzare e in qualche modo anticipatori delle odierne polarizzazioni, così estreme e conflittuali da apparire per sempre inconciliabili.
In ultimo, dopo il consiglio di leggere e fare vostro il libro di Thomson, un altro suggerimento. Provate a recuperare Campo Di Battaglia, l’ultimo lavoro di Gianni Amelio, se ancora lo trovate nelle sale. Perché sarà pur vero, com’è vero, che il regista calabrese ha da tempo perso la mano e non sforna un «pezzo di cinema» degno della sua fase aurea dai tempi dello scorsesiano, sanguigno Così Ridevano (1998), uno degli apici — Il Ladro Di Bambini (1992) e Lamerica (1994) gli altri due — di una carriera che dagli esordi nei primi ‘80 alle stagioni avanzate del decennio successivo non ha praticamente sbagliato nulla, ma vista l’attualità (globalizzata, non locale), un film così solido, fermo e antispettacolare sugli effetti della guerra (in questo caso, la guerra mondiale terminata nel 1918) assume all’improvviso le caratteristiche di un monito, non predicatorio né irenista, riguardante un fenomeno da non considerarsi mai necessario e inevitabile.
La guerra, ci dice Amelio, uccide, infetta, divide, strema anche chi non la combatte. Distinguere tra aggrediti e aggressori conta fino a un certo punto: sempre di esseri umani, sovente inconsapevoli, si tratta. Non c’è «causa» in grado di giustificare i massacri di individui inermi. E allora Campo Di Battaglia non sarà un film memorabile (tutt’altro), ma ha il merito di ricordarci come il cinema, anche senza scomodare l’esecrabile divulgazione di un «messaggio», possa ancora non essere la mera cassa di risonanza di messaggi propagandistici di distorsione della realtà e della storia, bensì la pratica — nobile, disincantata, matura — di uno sguardo lucido sulle voragini di senso del mondo contemporaneo.