Interviste

Micah P. Hinson in Italia: l’intervista

Usciva vent’anni fa The Gospel Of Progress, album d’esordio del cantautore texano Micah P. Hinson (in realtà prima c’era stato il mini The Baby And The Satellite, ma prima di essere ristampato aveva avuto una diffusione a dir poco carbonara), primo capitolo di una storia che continua tutt’ora e tanti bei dischi nel tempo ci ha regalato. In tutti questi anni, Micah è sempre stato una presenza fissa sui nostri palchi, passando a suonare in Italia spesso e in lungo e in largo, tanto da costruirsi una fanbase tutt’altro che piccola. Da quando poi ha stretto un sodalizio con la “nostra” Ponderosa, l’etichetta che gli ha pubblicato l’ultimo disco, I Lie To You del 2022, il legame s’è fatto più stretto, anche se lui, come leggerete, minimizza. Come che sia, Micah P. Hinson sta per tornare nel nostro paese con quattro concerti (qui tutte le info), due a luglio – il 3 al neonato festival Worm Up al Teatro dal Verme di Milano, con Rhiannon Giddens e il 6 all’Orto Medievale di Perugia – una ad agosto – il 14 all’Agriturismo Costantino di Maida – e una a settembre – a Suoni delle Dolomiti a San Martino di Castrozza. Per prepararci a questi eventi, abbiamo pensato di intervistarlo. Ecco le sue risposte, schiette e sincere esattamente come la sua musica.

Mi sembra tu abbia sempre avuto un ottimo rapporto con l’Italia: suoni qui molto spesso, qui hai registrato il tuo ultimo album. Cosa puoi dirmi della tua relazione con l’Italia?
Mi è già stata posta questa domanda un paio di volte in passato e mi dispiace se la mia risposta può risultare deludente, ma, sinceramente, non credo che sia una risposta così profonda o che nasconda chissà quale significato sul vostro paese e su di me. Sono venuto in Italia, come sono venuto in Europa, una vita fa, per suonare le mie canzoni. Non mi sono concentrato sull’Italia, né ho provato emozioni particolari: è successo e basta. Certo, lavorare con Asso e Ponderosa ha fatto sì che il tempo che trascorro nel vostro Paese sia sempre maggiore, ma sì, questo è l’inizio e la fine di tutto. Alla fine, la mia presenza nel Vecchio Mondo è una vendetta cosmica. Il mio popolo, i Chickasaw, è stato visitato da persone del Vecchio Mondo, a partire dagli spagnoli a metà del 1600, e la nostra vita laggiù non è più stata la stessa. Mi sento come i “selvaggi” che si imbarcarono sulle navi e vennero qui, uno straniero in un posto sconosciuto, con i miei capelli, la mia cultura, le mie credenze, e così via…

La prima volta che ti vidi dal vivo fu a Torino. Avevi appena pubblicato il tuo primo album ed eri accompagnato da una band. Le volte successive, spesso eri da solo o accompagnato da un ristrettissimo numero di musicisti. Quanto è difficile portare dei musicisti con te di questi tempi?
Oggi, con il sostegno di Ponderosa, non è difficile. Finalmente vengo sostenuto. Tutti gli anni in cui sono venuto a suonare da solo avevano a che fare solo con il sostegno che non ricevevo: ho passato anni e anni con etichette discografiche spazzatura. Era mia esclusiva responsabilità assumere i musicisti e portarli in giro, il che è molto, molto costoso e imprime una grande pressione su una sola persona. Sono molto fortunato a non dover lottare con i costi quotidiani di una band, anche se so che sono i miei compensi a renderla possibile, oltre che l’onesto, duro lavoro di tutti i partecipanti. Quindi, alla fine, lo faccio ma non lo faccio, se questo ha un senso. Sono fortunato. 

Ma qual’è la modalità con la quale preferisci esibirti?
Con la band. È più facile trovare le dinamiche. È più facile manipolare con una band. Inoltre è bello non essere soli lassù. Quando suonavo da solo, sentivo di poter trasmettere solo poche emozioni sul palco. Con una band, o un piccolo gruppo di esseri umani, possiamo avventurarci in luoghi interessanti. 

L’ultima volta, con te sul palco c’erano Paolo Mongardi e Alessandro Asso Stefana. Quest’ultimo è anche il produttore del tuo ultimo disco…
Sì, Asso ha prodotto I Lie To You con me. È una storia lunghissima, quindi la racconterò velocemente. Quando Asso, poco prima dell’arrivo della pandemia, mi ha chiesto di venire a incidere un disco con lui, avevo lasciato la mia etichetta e la mia agenzia di booking. Mi trovavo in un momento in cui stavo davvero pensando di abbandonare la musica, a causa della mancanza di supporto che ricevevo, o non ricevevo, dalla mia precedente etichetta. I dischi che facevo stavano progressivamente peggiorando o diventando sempre meno soddisfacenti, sentivo di non avere nulla da dire e quando avevo qualcosa da dire era fottutamente noioso. Così, sì, Asso e io abbiamo iniziato a fare I Lie To You e, con la pandemia di mezzo, ovviamente non si poteva viaggiare o cose del genere. Avevo la sensazione di poter riporre molta fiducia in Asso, perché mi guidasse e mi indicasse la strada da percorrere, una modalità molto, molto diversa rispetto a come avevo realizzato i miei album precedenti, che avevo fatto da solo. Quindi, sì, mi sono fidato di lui e lui ha portato me e le mie canzoni in un posto molto buono. Tutto molto scarno, molto semplice. Era esattamente ciò di cui avevo bisogno. 

Come vi siete conosciuti? E conoscevi già quello che aveva fatto come musicista?
Ci siamo conosciuti quando Vinicio Capossela mi ha invitato a suonare una canzone con lui allo Sponz Fest. Asso mi ha insegnato gli accordi. Così sono venuto a conoscenza di quello che aveva fatto nella vita, le persone che conosceva, i dischi in cui aveva suonato, ma all’inizio non avevo idea di chi fosse. Sono contento del fatto che non lo sapevo, perché mi sarei sentito molto intimidito. 

Qual’è stato il maggior contributo che ha portato alla tua musica?
Darmi spazio e comunicare con me costantemente.

Mi è sempre parso che dentro i tuoi testi ci sia un’ampia porzione di vita vissuta…
Come giustamente dici tu, la mia più grande ispirazione per la musica è il vivere la vita. È davvero così semplice, anche se, come sappiamo, vivere la vita non è un compito facile e può essere molto difficile da spiegare. 

La letteratura o il cinema hanno anch’essi un ruolo nell’ispirarti quello che scrivi?
No, la letteratura o il cinema non hanno alcuna influenza su ciò che scrivo. È tutto molto personale – questo scrivere canzoni – quindi non c’è molto, al di là della mia esperienza, che mi influenzi. Mi piacciono la letteratura e il cinema, naturalmente, non sono una bestia. Il mio scrittore preferito è Gabriel Garcia Marquez, “Cento anni di solitudine” è per me il miglior libro mai scritto in qualsiasi lingua dall’inizio della parola scritta. Per quanto riguarda i film, non ho una particolare considerazione per nessun regista o scrittore. Se lo vedo ed è bello, mi basta. Tuttavia, credo che stiamo vivendo in un’epoca in cui il “cinema” sia difficile da trovare – soprattutto negli Stati Uniti – mi pare ci siano solo pubblicità di birra e supereroi. L’ultimo film che ho visto è stato “Povere creature” ed è stato bellissimo da vedere, anche se la storia era molto perversa, strana e inquietante. 

Nel tuo modo di cantare e nella tua scrittura mi è sempre sembrato di percepire la ricerca di una sorta di intimità con l’ascoltatore, cosa che rende la tua musica speciale, secondo me…
Capisco quello che dici, ma non sono sicuro al 100% di capire cosa intendi. Se c’è un livello di “intimità” con chi mi ascolta, non ha nulla a che fare con me o con il modo in cui scrivo. Quando scrivo le mie canzoni, non penso affatto all’ascoltatore. Non hanno nulla a che fare con le mie canzoni e non lo faranno mai. Parlo dell’essere umano – e questo può certamente portare a una certa vicinanza – ma no, il grande pubblico non gioca alcun ruolo in ciò che scrivo o in ciò che creo. È un bellissimo sottoprodotto, ma, alla fine, è solo un sottoprodotto. Quando scrivo, cerco solo me stesso. Trovo che le risposte alle domande su chi sono, molte volte, siano date da me stesso. Che mucchio di stronzate filosofiche sto dicendo, ma è così che la vedo… Parlare del processo di scrittura non è mai facile e mi fa sentire sempre un po’ un idiota. 

Se dovessi suggerire a un ascoltatore che non conosce la tua musica uno dei tuoi dischi per iniziare, quale suggeriresti e perché?
The Gospel Of Progress
perché è l’inizio. In realtà, The Baby and The Satellite era arrivato prima, ma questo può essere un po’ confuso da spiegare. The Gospel Of Progress è una raccolta delle mie prime canzoni, quindi sarebbe un buon punto di partenza. Sento che i miei dischi sono, in qualche modo, una mappa stradale: le persone possono seguirmi attraverso la linea del tempo della mia esistenza e delle mie esperienze, nel bene e nel male. 

Allo stesso modo, qual è il disco di cui sei più orgoglioso e ce n’è uno in cui fatichi a riconoscerti o del quale cambieresti qualcosa?
L’album di cui vado più fiero è The Pioneer Saboteurs. Quando l’ho registrato, era il culmine di tutto ciò che avevo fatto e scritto fino a quel momento della mia vita. Sentivo di essere in grado di catturare un intero mondo in quell’album: bello, confuso, violento, tenero… tutte le cose che compongono la vita. Quelli che amo meno sono The Holy Strangers e The Musicians of The Apocalypse. Avrei fatto meglio a non scrivere e a non pubblicare quegli album, ma alla fine è così, i dischi sono quello che sono e non posso farci niente. Cerco di non avere rimpianti e di vedere tutto come un momento di apprendimento. Quegli album erano il risultato della vita che stavo vivendo, e non vivo più quella vita. Per grazia della Dea, sono sfuggito a quelle catene. 

I generi classici della musica americana – country, folk, per esempio – sono molto presenti nella tua musica. Quanto sono importanti per te come autore e come ascoltatore? Cosa rende questo tipo di musica sempre così attuale, senza tempo?
Come ascoltatore, la musica folk e country non ha alcuna importanza o impatto sul mio lavoro. So che la gente ascolterà la mia musica e vedrà da dove vengo e penserà che sono cresciuto con la musica country, che sono cresciuto con la musica folk, ma non è così. Usare la parola ‘country’ era come usare la parola ‘coglione’: non era attraente e, in un certo senso, lo è ancora. Non sono cresciuto in un’epoca in cui il “country” era autentico. Era come una pubblicità di birra, qualcosa da vendere alle masse. E, per questo, non sono d’accordo sul fatto che sia “senza tempo”, tutto il contrario. La musica country è solo un’altra forma di musica che i bianchi hanno preso da altre forme di musica e hanno cercato di fare propria, come il blues bianco (ma questo è un altro discorso…). Suppongo che siano presenti perché dovevano essere presenti. Sono nato in Tennessee e cresciuto in Texas, dovevo scrivere canzoni e quelle canzoni dovevano avere una sfumatura di “country”. Inoltre, suonavo una chitarra acustica, scrivevo canzoni e, in generale, ero “bianco”, quindi, in un certo senso, era anche cosmico, non una scelta, ma una sorta di stronzata predestinata che dovevo vivere: tutta la tristezza, tutti i miei problemi, eccetera eccetera…

A Milano, Rhiannon Giddens suonerà la stessa sera e sullo stesso palco sul quale ti esibirai. Conosci la sua musica?
No, non la conosco. L’ho cercata e qualcuno mi ha detto che è una rappresentante moderna della musica “folk” del mio paese. Sono interessato a vederla suonare. 

Cosa dobbiamo aspettarci da questa nuova serie di concerti? Con chi suonerai questa volta?
Suonerò con Asso e con il batterista di I Lie To You, Zeno de Rossi. Suoneremo la maggior parte del mio ultimo disco, insieme a una manciata di canzoni dei miei 20 anni di album precedenti. So che ci sono molte canzoni del mio passato che la gente vuole ascoltare, ma non le suonerò mai: ancora una volta, non sono più la persona che ha scritto quelle canzoni e tornare a cantarle mi sembra imbarazzante, come se stessi suonando cover di un autore che non mi è mai piaciuto. 

Il tuo ultimo album è uscito quasi due anni fa: stai lavorando a qualcosa di nuovo?
Due anni… quasi, sì un anno e mezzo, che per me, con la mia storia di pubblicazione di dischi, è un periodo di tempo piuttosto lungo. È una cosa che mi ha fatto sentire come una fabbrica, un nuovo album ogni anno/anno e mezzo, e questo per necessità, e non per un bisogno artistico; dovevo guadagnarmi da vivere, dovevo sfamare la mia famiglia, quindi è quello che ho fatto: pubblicare album, perché sembrava impossibile andare in tour senza un nuovo album. Il capitalismo, il processo infinito di creazione di cose che possono essere consumate. Per fortuna ora mi trovo in un luogo in cui non mi sento assolutamente confinato dal tempo e dal capitalismo. Queste due cose giocheranno sempre, e per sempre, un ruolo in quello che faccio – deve farlo, ha effetti su tutti noi – ma scelgo di respirare con calma e lasciare che le canzoni arrivino quando arrivano. Ma, anche dicendo questo, sto lavorando a un nuovo album. Sarà qualcosa di speciale. Sto vivendo la vita giusta, sto lavorando con l’etichetta giusta, sto suonando con le persone giuste… quindi il cielo è limpido e stiamo andando avanti con coraggio e determinazione.

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