Mancava veramente da tantissimo tempo Bonnie Prince Billy dai palchi italiani. L’ultimo giro che aveva fatto dalle nostre parti risaliva nientemeno che al 2012, un tempo così remoto che all’epoca di quel giro estivo, nella sua band c’era ancora Angel Olsen come corista, la quale stava appena iniziando a muovere i primi passi da solista.
Dodici anni sono un periodo lungo per chiunque, figurarsi per uno come Will Oldham che, prolifico com’è, in questo periodo di tempo ha buttato fuori una decina di dischi, più o meno. Ovvio quindi che ci fosse una certa attesa per il suo ritorno in Italia, attesa ripagata da diversi show, tutti assai molto partecipati, in alcuni casi andati tranquillamente sold out.
Noi abbiamo assistito al concerto milanese, in Santeria Toscana 31, a dire il vero all’inizio vuotarello, temevo il peggio, ma per l’ora d’inizio concerto invece parecchio pieno. Del resto è noto che i milanesi arrivano sempre al pelo, e così è stato pure stavolta.
Durante l’estate Bonnie tornerà ancora in Europa, ad esempio per fare da headliner all’End Of The Road, ma non si sa con che tipo di formazione. Qui si è presentato in trio, con lui a voce e chitarra acustica, Thomas Deakin diviso fra clarinetto, tromba e chitarra elettrica e Drew Miller a sax e flauto traverso. Assetto intimo e minimale, assolutamente perfetto per la voce calda e sempre più avvolgente del menestrello di Louisville e per i pezzi scelti da suonare in quest’occasione, attinti in larga parte dall’ultimo, bellissimo Keeping Secrets Will Destroy You.
Durante tutta la giornata, anche oggi, ha continuato a piovere, ci sono parti di Milano che sono mezze allagate. Quando dopo le 21:30 i tre salgono sul palco, con una mezz’oretta o più di ritardo sugli orari annunciati, Oldham ci chiede in un italiano perfetto: “Ma è normale il tempo?” e lo fa chiaramente attaccando quella Shorty’s Ark proveniente dal secondo disco fatto in coppia con Matt Sweeney, pezzo nel quale s’improvvisava novello Noè. “Pensate ad essere i dinosauri e vedere l’astronave arrivare…”, ironizza più avanti, mettendo in mostra una simpatica ironia, che più volte verrà fuori nelle piccole introduzioni fatte qui e là.
Cappello da baseball in testa, camicia a quadri d’ordinanza, ma anche eyeliner agli occhi e smalto sulle unghie, Will Odham rimane un personaggio leggermente stralunato, ma indubitabilmente baciato dal genio. Non si scherza quando lo si definisce il “Bob Dylan della sua generazione”. Del resto non serve che tiri fuori i vecchi pezzi dei Palace, come una semi irriconoscibile New Partner, o la celeberrima I See A Darkness, accolta da un applauso fin dalle prime note, ancor più rallentata e adattata al mood cameristico della serata, per rendersene conto, perché anche tutti i pezzi più recenti mettono in mostra il talento di un autore che va molto oltre la media.
Durante I See A Darkness, il barista sul fondo della sala si mette a shakerare un cocktail – quasi a tempo devo dire – Bonnie ci scherza su e ci guadagna un Margarita. Tutti e tre i musicisti sono seduti su delle sedie, ma lui pare non trovare posizione, continua a muoversi, s’inginocchia, s’alza, la gira e la rigira come un tarantolato. Deakin e Miller accarezzano con i loro strumenti o con le voci le bellissime melodie delle varie canzoni, pezzi straordinari come Look Backward On Your Future, Look, Behold! Be Held!, Bananas o la Is My Living In Vain delle Clark Sisters, resi momenti di pura magia emozionale da un Oldham intensissimo in tutti gli episodi.
Nel bis Will tira fuori una cover de L’ultima occasione di Mina struggente e passionale, fa gli auguri di buon compleanno a Jonathan Richman, ma non con la consueta canzoncina (pare scritta da due maestre di Louisville e considerata una maledizione dagli abitanti del Kentucky), per poi accarezzarci con una Dream Awhile che suona come un balsamo capace di lenire qualsiasi ferita e con le note avvolgenti della ninna nanna finale, Good Morning, Popocatépl, che ci accompagna fuori nella notte dove, incredibilmente, almeno per un po’ ha smesso di piovere.