MATTHEW RYAN
Boxers
Blue Rose/Ird
*** ½
Essere originali, talvolta, non significa per forza proporsi in modo innovativo o fuori dagli schemi, ma anche, forse soprattutto, avere coscienza delle proprie origini. Boxers, ossia «pugili», combattenti stanchi, amareggiati, consumati, sfibrati dalla vita eppure ancora in cerca di un sogno o un ideale in grado di ribaltare la sconfitta, come i protagonisti di uno dei racconti di Pugni (2006), dello scrittore fiorentino Pietro Grossi, come le storie scarne, umane e iperrealiste del californiano F.X. Toole, come l’amico John Anderson in lotta contro la neurodegenerazione indotta da una forma inesorabile di sclerosi laterale amiotrofica (a lui è dedicato il lancinante punk-rock metropolitano di An Anthem For The Broken), rappresenta per Matthew Ryan un doppio ritorno a casa. Il ritorno, in primo luogo, ai panorami industriali e ai dipartimenti siderurgici della Pennsylvania, dov’è nato, 43 anni fa (a Chester), e dov’è tornato a vivere, oggi (nei dintorni delle acciaierie di Pittsburgh), e quindi il ritorno al r’n’r, all’elettricità, alla frenesia, all’irrequietezza e allo straordinario intreccio di furia rockista, canzone d’autore e sentimenti tragici dei primi album dopo una serie di esperimenti, tra folktronica e minimalismo sintetico, magari apprezzati dai fan (basta ascoltare brani quali And It’s Such A Drag o Amy, I’m Letting Go, dall’ultimo In The Dusk Of Everything [2012], per comprendere quanto fuoco ancora bruciasse sotto le ceneri, polverizzate da synth “poveri” e tuttavia carichi di fascino, della scrittura dell’artista) ma di certo non efficaci né espressivi quanto lo erano stati gli esordi, nella seconda metà degli anni ’90 sorprendenti, entusiasmanti, necessari come pochissime altre produzioni del periodo. Prodotto da Kevin Salem, un esperto del rock più crudo, scuro e tagliente (qualcuno senz’altro ricorderà il postpunk viscerale dei Dumptruck da lui capitanati durante gli Ottanta, oppure il suono abrasivo e urbano dei suoi dischi solisti del decennio successivo), e da questi anche musicato, avvalendosi del basso dell’immancabile Brian Bequette, dei tamburi di Joe Magistro (Black Crowes) e delle sei corde arroventate di Brian Fallon (Gaslight Anthem), Boxers è un album animoso e travolgente come le scosse di distorsioni che, nella traccia omonima, lo inaugurano, tanto secco e brutalmente rigoroso, nel suo continuo intercalare strofe brucianti e ritornelli essenziali e concisi (nonché quasi tutti urlati quasi non ci fosse un domani), da riportare chi lo ascolta al romanticismo disarmante di Johnny Thunders, al lirico sferragliare del Bruce Springsteen targato 1978, alla sporcizia eversiva e struggente dei Replacements di Paul Westerberg. Questi ultimi, poi, sono il riferimento più evidente di una Suffer No More in cui si rimescolano dolcezza pop e irruenza punk, e se altrove capita di imbattersi in tracce debitrici dell’indie-rock ambizioso, notturno e dark dei National (succede in God’s Not Here Tonight e This One’s For You Frankie), il maggior pregio di Boxers è proprio quello di manifestare il rinnovato compimento dello stile inconfondibile del titolare, immediatamente riconoscibile fin dalle prime, esplosive note di un’armonica ruvida in The First Heartbreak, fin dai primi rintocchi del malinconico pop-rock elettroacustico di We Are Libertines, fin dai primi arpeggi della sofferta e scheletrica Until Kingdom Come (incantevole esercizio unplugged costruito su citazioni di Pogues e Beatles), fin dalle prime sfumature ambient dell’atmosferica If You’re Not Happy. Then She Threw Me Like A Hand Granade, da qualche parte fra Tom Petty e gli Arcade Fire, è il genere di brano in grado di guarire la nostalgia di chi ancora non ha smesso di ricordare l’epopea del migliore blue-collar rock, mentre nell’edizione italiana dell’album trovano spazio anche una versione demo, per sola chitarra, dello stesso pezzo e un folk-rock da camera, sulla scia dell’ultimo Nick Cave, intitolato The Queen Of My Arms, che oltre a essere una delle cose più belle e coinvolgenti dell’intero Boxers lascia intravedere per la carriera di Matthew Ryan prospettive per nulla scontate. Nel frattempo, anche senza parlare di rinascita o purificazione (sarebbe in fondo ingiusto nei confronti di un artista cui davvero tutto può essere rimproverato tranne la mancanza di stimoli e abnegazione verso i propri progetti), Boxers è il lavoro più riuscito del suo artefice dai tempi di From A Late Night High Rise (2006) e un disco da sentire assolutamente. Soprattutto se ci si vuole ancora emozionare di fronte a una galleria di personaggi e canzoni sempre in bilico tra successo e fallimento, tra conflitto e abbandono, trionfo e sbandamento tutti sovrapposti in un lungo, rabbioso, disincantato omaggio alla poesia disordinata e nervosa del rock.