È praticamente sicuro che, in qualsiasi articolo vi capiterà di leggere sulle Last Dinner Party, vi troverete associato il termine hype. Non l’avevo fatto io quando ne avevo scritto dopo averle viste aprire l’End Of The Road festival del 2023, ma mi spingevo a ipotizzare, in effetti rischiando pochissimo, che “quando arriveranno all’esordio di loro si sentirà parlare parecchio.”
Infatti, e parliamo della scorsa estate, il quintetto londinese, con appena due singoli alle spalle e una storia che datava al massimo a un anno prima, aveva già messo a segno l’apertura per gli Stones al mega concerto ad Hyde Park, la partecipazione a mastodontici festival come Glastonbury e Reading, il supporto incondizionato di fan quali Nick Cave e James Ford, con quest’ultimo diventato poi il loro produttore, per un esordio, uscito da pochissimo, pubblicato direttamente su una major quale Island.
Insomma, non c’è dubbio che siano la band inglese più chiacchierata del momento, sulla quale sarebbe facilissimo nutrire sospetti, snobbandolo quale prodotto costruito a tavolino (il perché farlo è tutto da comprendere, ma vabbè). E però, poi, bisogna pure attenersi ai fatti certi, e quindi andare a vedere nella sostanza di cosa sono capaci queste cinque giovanissime ragazze.
All’epoca del citato End Of The Road, quando avevo una pallidissima idea di chi fossero e avevo forse ascoltato solo uno dei loro singoli, mi avevano già impressionato per la tenuta del palco e per una proposta già matura, un misto di indie rock, glam e pop barocco, dai connotati arty e una grande attenzione all’immagine e, va da sé, all’immaginario evocato, per un sound capace di ricordare acts quali Florence & The Machine, Bowie, T-Rex, Sparks e via così, chiaramente il tutto aggiornato al contemporaneo.
Nel frattempo è uscito Prelude To Ecstasy, l’esordio che tutto ciò lo ha messo su nastro, attraverso canzoni ottimamente scritte e interpretate, con testi consapevoli che non passano inosservati, una grande capacità nel mettere gli elementi giusti al posto giusto e una qualità melodica tale da fare la differenza, unita a un gusto per l’arrangiamento per nulla banale. Il ché è un modo per dire che, fosse anche hype, alla fine è meritato, perché i pezzi ci sono e il miglior pop ha sempre prosperato su un certo glamour e sulla capacità di essere in qualche modo dei personaggi.
Abigail Morris (voce), Emily Roberts (chitarra, mandolino, flauto), Aurora Nishevci (tastiere, voce), Lizzie Mayland (chitarra, voce) e Georgia Davis (basso) – non hanno un batterista fisso, che su disco era essenzialmente Ford e qui, stasera, è l’argentina Daiana Azar, tra l’altro, scopro grazie a un amico che la conosce personalmente, unitasi alla band appena cinque giorni prima – sanno quello che fanno, hanno talento e si godono il momento, compresa l’esposizione mediatica che le permette di avere già una fanbase a dir poco assatanata.
Quando arrivo al Santeria Toscana 31 di Milano, con un paio d’ore buone d’anticipo rispetto all’inizio dei concerti, così da potermi piazzare e fare le foto, in un locale dove non c’è il più per i fotografi, trovo già una lunga fila di ragazzi in attesa dell’apertura delle porte. Tra questi, in tanti parlano in inglese e, orecchiando qualche dialogo, sento che molti stanno seguendo la band in diverse date del tour. Tenete presente che l’album è uscito il 2 febbraio, e con questo ho detto tutto.
Manco a dirlo, questo loro esordio live in Italia è andato sold out con settimane d’anticipo e nell’aria si respira il profumo delle occasioni speciali. Tanti i giovanissimi, ma il pubblico è in realtà molto composito e man mano che ci si sposta verso le file in fondo alla sala si trovano persone di tutte le età.
Apre la serata la cantante palestinese, oggi residente in UK, Lana Lubany, artista con nel carniere una manciata di singoli e un paio di EP. Con lei un chitarrista/producer, anche al computer. Pop elettronico, con naturali connessioni col contemporary r&b, nel quale comunque non mancano sfumature arabeggianti (infatti canta sia in inglese che in arabo). Ha una bella voce, si muove energicamente sul palco e, anche se fa un tipo di musica che non m’interessa affatto, non è spiacevole. A un certo punto salta la consolle e finisce lo show in acustico, solo voce e chitarra, momento che, devo dire, ho apprezzato particolarmente.
Finito il cambio palco, dalle casse esce l’intro orchestrale che dà il titolo e apre Prelude To Ecstasy e le Last Dinner Party salgono on stage. Dal pubblico, quantomeno dalle prime file, parte un boato entusiasta e, per i tre pezzi che rimarrò davanti a far le foto, mi risulterà addirittura difficile sentire sul serio quello che arriva dalle casse, perché dietro di me cantano a squarciagola le canzoni direttamente nelle mie orecchie, facendomi per un attimo pensare di essere in uno di quei filmati inerenti la beatlemania (anche se non credo si possa ancora parlare di dinnermania).
Ad ogni modo, il quintetto (più una) è preso ovviamente benissimo, a più riprese dirà che questa è la miglior data del loro tour e il loro entusiasmo, almeno quanto quello del pubblico, appare realmente sincero. Abigail, con vestito in pizzo bianco, è credibilissima nel ruolo di front woman: non solo ha una bella voce, ma con le sue movenze teatrali, le sue piroette e le pose rock’n’roll si dimostra nuovamente capace di tenere il palco da scafata professionista.
Leggermente più statiche le altre, anche se notevolmente più sciolte rispetto a quando le avevo viste l’altra volta. Il sound è quello del disco, riprodotto con facilità da una band che indubbiamente suona e che in Emily Roberts ha una più che buona chitarrista lead. Il disco viene suonato per intero, senza nessun degli altri pezzi inediti provati in altre date del tour.
Una cinquantina di minuti in totale, aperti dalla grintosa e propulsiva Burn Alive e portati avanti dalla notevole e teatrale Caesar On A Tv Screen (che mi piace anche se a tratti mi ricorda quella che è per me la band più uncool di sempre, i Queen), dall’innodica The Feminine Urge, dalla romantica e avvolgente Beautiful Boy, dalla ballata On Your Side.
Un po’ diversa dal resto è Gjuha, sorta di folk song cameristica cantata in albanese dalla tastierista Aurora Nishevci, di origini kosovare, che apre all’esplosione di Sinner, uno dei loro primi due singoli, nonché uno dei loro pezzi migliori, nervosa e incisiva dal punto di vista ritmico e dei riff chitarristici, col piano a ticchettare e una melodia che ti rimane in testa dopo un solo ascolto.
Ci si avvia verso il finale, quindi, con le volte ariose, ma conturbanti di Portrait Of A Dead Girl e di Mirror, con le saturazioni glam rock di My Lady Of Mercy, infine col trionfo melodico di un altro singolo killer quale Nothing Matters. Poi le luci si accendono e un pizzico di ebrezza pare continuare ad aleggiare nell’aria. Nessuna epifania magari, ma a volte credere all’hype non è cosa sbagliata.