Si è chiusa domenica 5 novembre l’ottava edizione del JAZZMI, il festival milanese dedicato al jazz (nelle sue più varie forme), ormai vero e proprio fiore all’occhiello non solo per la città lombarda, ma indubbiamente anche per ciò che riguarda la musica live presa nel suo insieme in Italia e oltre.
Parlano i numeri: in circa venticinque giorni di programmazione – il tutto aveva preso il via il 12 ottobre con il concerto di Arto Lindsay – hanno partecipato al festival oltre 500 artisti, i quali hanno dato vita a 200 diversi eventi, molti dei quali sold out, sparpagliati nella rete di teatri, club e locali cittadini, così da raccogliere in totale la bellezza di oltre 50.000 persone. Da sempre, poi, JAZZMI non vuol dire solo concerti, ma anche incontri con gli artisti, presentazioni, proiezioni e eventi speciali di varia natura, così da appagare tutti i sensi dei tantissimi estimatori di questa musica.
Chi dovesse avere ancora l’idea del jazz come di un genere arroccato nel passato, buono per qualche vecchio incanutito e poco capace di parlare al presente, dovrebbe insomma farsi un giro a una qualsiasi delle serate del JAZZMI che, favorito dalle nuove tendenze del jazz contemporaneo, ha tra i tanti meriti quallo di aver attirato anche tantissimi giovani, cosa da non dare mai troppo per scontata quando si parla di generi ormai storicizzati come il jazz, ma anche il rock se è per quello.
Insomma, un successo meritato e importante, frutto della sapiente direzione artistica di Luciano Linzi e Titti Santini e della sinergia propositiva fra enti pubblici e privati, a dimostrazione che, quando si vuole, le cose possono essere fatte molto bene, pure in Italia.
Come ogni anno, di roba da non perdere ce n’era veramente tanta e, per quello che m’è risultato possibile, ho cercato di presenziare almeno a quelle che m’interessavano di più, ben consapevole che nel mentre me ne perdevo molte altre parimenti interessanti. Non essendo necessariamente un esperto in materia, ma più un appassionato consapevole, qui di seguito mi limito giusto a una rapida carrellata delle cose viste, più impressioni che altro, suggerendovi magari di andare a dare un’occhiata alle foto in fondo alla pagina, in larga parte scattate dal sottoscritto, nel caso di Marcus Miller carpite da Rodolfo Sassano, così da avere anche un racconto per immagini.
Assolutamente da non perdere, per me, era la serata al Teatro della Triennale del 13 novembre, la quale presentava due concerti uno di seguito all’altro. Il primo vedeva protagonista Binker Moses con la sua band. Metà del duo Binker & Moses, da solista il sassofonista inglese è autore di una musica decisamente più classica e morbida di quella più contemporanea e screziata d’elettronica fatta col suo socio. Qualche passaggio più concitato e free non è mancato, ma col suo quintetto, presentando sostanzialmente i pezzi dell’ultimo Dream Like A Dogwood Wild Boy, spesso si è orientato più al blues, anche grazie agli interventi in tal senso del bravo chitarrista Billy Adamson.
Più avventurosa, la stessa sera, la performance di Ben LaMar Gay (cornetta, synth, voce, percussioni), accompagnato da Will Faber (chitarra, voce), Matt Davis (susafono, voce) e Tommaso Moretti (batteria). Jazz, elettronica, scampoli di tropicalismo tribale, passaggi avant, poliritmie e invenzioni sonore, tutto concorre a tratteggiare una sorta di black music totale, non sempre facilissima ovviamente, ma di sicuro parecchio interessante.
Qualche giorno dopo, nel centrale Teatro San Babila, intercetto invece Moses Boyd, proprio l’altra metà del duo formato da Binker Golding (e peccato non sia stato possibile proporre anche un concerto come duo, vista la bellezza del loro ultimo album). Concerto gratuito patrocinato da Apple Music (bastava solo prenotarsi via Dice), la sua performance in quartetto non m’è dispiaciuta, ma neppure m’ha convinto fino in fondo, forse perché troppo spesso intenta a scivolare in una fusion molto tecnica che non è proprio una di quelle cose capaci d’esaltarmi.
Meglio, molto meglio, la sera dopo al Magnolia, il concerto di Tom Skinner. In quanto ex batterista dei Sons Of Kemet e attuale membro degli Smile con Thom Yorke e Johnny Greenwood, e vista anche la bellezza di Voices Of Bishara, mi aspettavo il pienone, e invece siamo uno sparuto manipolo di appassionati a vedere la sua performance. Bene per chi c’era, perché la sua è stata una delle cose migliori viste al JAZZMI di quest’anno dal sottoscritto. Splendide le composizioni, raffinatissimo e intrigante il suo lavoro sui ritmi e clamorso l’interplay tra i strumentisti che lo accompagnavano (due sax (a volte flauto), contrabbasso, violoncello). Stupendo.
Altro grande concerto la sera dopo con il trio Shabaka Hutchings (sax, flauti), Hamid Drake (batteria, percussioni, voce) e Majid Bekkas (voce, guembri, kalimba), una di quelle classiche situazioni in cui, forse, storcono il naso i puristi, ma quelli i cui ascolti si muovono al confine coi generi vanno in visibilio. Inizialmente era un progetto condiviso da Bekkas e Drake con Peter Brötzmann, dentro il quale Hutchings si è inserito portando il suo peculiare stile capace di adattarsi a situazioni molto differenti fra loro. La musica del trio parte dalle melodie ipnotiche e senza tempo portate dal musicista marocchino, per poi essere spedita in un altrove sonoro dalle invenzioni ritmiche di Drake e dai fraseggi del sassofonista inglese. Musica rituale e misticheggiante, spirituale e senza barriere, veramente fenomenale.
La sera dopo avrei avuto il concerto dei Jaga Jazzist, ma con rammarico non ce l’ho fatta proprio ad andare (me ne hanno parlato benissimo). Saltiamo così alla Halloween Night in programma al Teatro della Triennale, per l’appunto la sera del 31 ottobre. Poco interessante alle mie orecchie il progetto del giovane Francesco Cavestri, qui in trio, che mi verrebbe da liquidare come roba da riccardoni, non fosse questo fin troppo irriverente. E ancora irrisolta anche la proposta dei Don Karate, più sfiziosa alle mie orecchie, ma apparsa ancora in uno stato embrionale, da work in progress.
Cosa che non si può certo dire, invece, per la performance dei veri protagonisti della serata, la mitica Sun Ra Arkestra. Sun Ra ovviamente non c’è più da un pezzo, e stavolta, rispetto all’ultimo passaggio di qualche anno fa, anche l’ultra novantenne Marshall Allen è assente. Poco male comunque, perché anche la direzione di Noel Scott, membro dell’Arkestra dal 1979, non manca di far sprigionare meraviglia. Pochissima avanguardia, poco anche free, ma tanta energia swingante da visionaria Big Band, sorretta da musicisti scafatissimi e bellissimi da vedere, attraverso i quali continuare a sognare mondi lontani.
Per finire, domenica 5, è stata la volta di Makaya McCraven, che doveva essere protagonista dell’anticipazione estiva del festival e, per via del suo show cancellato per maltempo, si è ritrovato ad essere colui che l’ha chiuso. Devo dire che la musica messa in piedi col suo quartetto, di base quella contenuta nell’ultimo In These Times, dal vivo mi è parsa ancora più forte e coinvolgente, per l’estro di un grandissimo chitarrista, per l’amalgama d’insieme, per l’approccio roccioso di McCraven al suo strumento. Una chiusa migliore non poteva esserci, insomma.
L’appuntamento col JAZZMI è per l’anno prossimo, ma non dimenticate i due eventi speciali fuori festival già programmati: Samara Joy sarà al Teatro La Bolla di Bollate, sabato 18 novembre alle 21; domenica 5 maggio 2024, invece, JAZZMI porterà Brad Mehldau al Conservatorio di Milano. Prendete nota.