Per qualcuno apparirò di parte, a questo punto, ma se mi trovo nuovamente a raccontare un’esperienza all’inseguimento della band più elettrizzante del momento, non è del tutto colpa mia, ma di chi non c’era. In Italia proprio non ce li volevano portare, quando intorno i tre ragazzi scompigliavano i programmi dei promoter europei che li volevano al cospetto della dinastia del Blues e di tutta la progenie.
Il power trio americano, e la loro essenza afrodisiaca di country honky-tonk e proto rock n’roll partorita da un blues primigenio, mentre stava conquistando i due continenti, passava indifferente alle attenzioni del nostro Bel Paese, che orgoglioso resisteva schierando le sue truppe. Autunno, primavera… fino a quando, per fortuna, Credo e ostinazione di qualcuno che sa volgere lo sguardo oltre, mosso da un autentico interesse alle vecchie e sane “possibilità” (e non orientato solamente al botteghino) e con la legittima intenzione di arieggiare ambienti ormai stantii, arrivano a centrare l’obiettivo.
La missione è quella sacrosanta di combattere i cattivi pregiudizi, che rimangono a segnare insormontabili confini tra quei nomi che cominciano con la maiuscola e coloro che faticano a trovare il giusto spazio. Un mandato condiviso fra due continenti, che “Dal Mississippi al Po”, da Boston a Sogliano al Rubicone, da Piacenza a Brescia, passando da Narcao e dal Trasimeno,alza la sua voce grazie alla tenacia di Slang Music che, giocandola di prima con le organizzazioni in loco, segna con un tiro da lontano, regalando in esclusiva il tour di cinque show intorno allo stivale.
Una tra le formazioni maggiormente interessanti del momento e la consapevolezza di “poter avere tra le mani” musicisti che hanno macinato centinaia di spettacoli in giro per il mondo, hanno dato il benestare alla riuscita del progetto, che ha librato voci di entusiasmo e mosso l’intenzione, se non la promessa, di portarli nuovamente qui in Italia. Perché uno show dal vivo dei GA 20 è qualcosa di feroce, di impietoso, un match adrenalinico in cui un diretto dietro l’altro si infila vorticoso dal set alla platea.
Il debutto, nei bollenti giorni della scorsa settimana, vede una Piacenza, seppur penalizzata da temperature soffocanti, accoglierli con eccitazione e slancio nella suggestiva corte del convento in Santa Chiara. Ottimo lavoro: luci, suoni, e qualche ventilatore recuperato all’ultimo momento. Colpi rapidi, a lunga gettata, che prendono il controllo sull’intero pubblico, subito intontito dalla sferragliata di chiassosi accordi dell’inconfutabile NO NO, per poi cedere a pulsazioni languide su di una ballata malinconica come la loro Just Because. Figli di un originale blues chicagoiano saldo alle radici e un estremo sound che inventa convulsioni elettriche, Stubbs e Faherty in perfetta sincronia, come fossero due cloni, fra le note deflagranti delle due chitarre a contendersi la scena.
In grado di mollare l’acceleratore quando necessario e di spingere sull’orlo di un profondo precipizio le emozioni, la scaletta sarà simile anche nei giorni successivi, ma sempre mantenendo la promessa di stupire. Loro: dolci, amari, gentili e vigorosi, mescolando i ritmi sincopati di una Double Gettin che consegna sapide influenze ataviche e lanciandosi nel groove potente dell’anacoreta Houndog Taylor o passeggiando, a gran sorpresa, nel deep south di RL Burnside.
Una formazione inospitale alle quattro corde, delle quali mai si sente la mancanza. Folti riff dal clangore levigato in mezzo a spirali travolgenti in overdrive: suonano come diavolo hanno voglia, conducendo il gioco a turno attraverso l’impeto del più giovane Pat Faherty o l’intelligenza veterana del compagno Matthew Stubbs. Due chitarre e una sola direzione, ad insegnar cosa significhi saper maneggiare il blues, il rock e il funky grazie a quella chimica sul palco che solo grandi gruppi sanno trasformare in qualche cosa di magnetico. Vibrazioni che moltiplicano i sensi, fantasie frizzanti insieme al timbro secco dei bassi chitarristici, le ritmiche frenetiche di Fairwheather Friend e la voce di Pat Faherty a catalizzarne il fervore elettrico tra slides accesi e improvvise fughe, mentre Matthew Stubbs dosa con sapienza iniezioni di squadrati e rigorosi assoli e Tim Carman, dietro alle pelli, un maestro nel guidare le cadenze con estrema discrezione ed equilibrio.
Alfieri di sonorità retrò, questa volta azzardano la rivisitazione di una splendida I Don’t Mine, più simile agli Who che alla versione di James Brown, e maniacali nella scelta di una strumentazione vintage, rischiano di far diventare matti tecnici e road manager, ma col risultato che poi tutti abbiamo sotto gli occhi. Il repertorio è ampio, caustico e arruffato, che rimbomba fra i loro tre lavori in studio e l’ultima creatura Live in Loveland: I Cry For You, My Baby’s Sweeter, One More Time, fino ad esplorare territori garage con le sfumature o le latitudini giù a sud con gli intercali di Dry Run e il suo sapore pigro di Louisiana.
I loro spettacoli non sono qualche cosa che si può descrivere… occorre viverli, goderli, assaporare questi suoni nel loro “ambiente naturale”, registrando fotogrammi di quell’energia dinamica e vitale che durante i loro show deborda da ogni angolo.
Ad Aprile 2022, chi scrive, aveva in testa un fervido pensiero: “…nell’attesa che l’intensità del loro fuoco possa giungere in ogni angolo d’Europa, senza che di nuovo venga circoscritto…”. È arrivato, finalmente. Deve solo trasformarsi in un incendio.