Di tutti i cantautori della West-Coast americana, dell’epopea del Laurel Canyon, Jackson Browne è uno degli esponenti più popolari, e amati, al mondo, ma non per una sua presunta «facilità» (nessuna musica, quando possiede un’anima, è facile), bensì per la coerenza, direi anche per il coraggio, con cui dalla fine degli anni ’60 a oggi non ha mai smesso di andare dritto al centro dell’emozione, di toccare le note vive di innumerevoli battaglie civili, di parlare di nostalgia, passioni e ricordi radicati sì nel cuore inquieto della sua nazione, eppure appartenute a tutti, per tutti fonte di grandi desideri e piccoli rimpianti.
Diventato celebre assieme a diversi colleghi della cosiddetta «me generation» – una leva di artisti allenata a trarre significati sociali dalla storia personale trattando la vita di ogni singolo individuo come una parabola densa di riferimenti e valori universali – Browne non ha però mai smesso di esprimersi al plurale e di usare le proprie canzoni per raccontare la cronaca non solo del proprio io, ma della civiltà occidentale, in una continua registrazione della contro-storia delle persone dimenticate, delle loro vicende umane, dei loro rapporti economici e sentimentali. Per questo l’esibizione al Teatro Auditorium Manzoni di Bologna, seconda tappa di un ciclo di quattro concerti italiani, è sembrata, invece di uno spettacolo qualsiasi, una celebrazione dell’affetto, dell’amore ancora bruciante tra un musicista e il suo pubblico, entrambi coinvolti in un circolo di emozioni dove i brani dell’ormai attempato cantastorie (nondimeno, in strepitosa forma fisica) hanno la stessa importanza del calore con cui vengono recepiti, un’ondata di gioia e apprezzamento talmente naturale, espressiva e spontanea da trasformarsi all’istante in uno degli inevitabili protagonisti della serata.
Il suono di Browne e della sua band, a partire dall’iniziale, sferzante The Barricades Of Heaven, è caldo, elegante e fradicio di sobria malinconia persino nelle parentesi più rockeggianti (per esempio nell’honky-tonk elettrico della recente Leaving Winslow o nelle crude svisate mainstream di una sontuosa Looking East), costruito intorno alla straordinaria qualità artigiana di un Greg Leisz impegnato a suonare un po’ di tutto, persino una 12 corde custom nei rintocchi byrdsiani di una The Birds Of St. Marks dagli inconfondibili echi californiani, e tuttavia magnifico soprattutto nel distillare gocce di cosmica nostalgia da pedal- e lap-steel. Ma tutta la band, malgrado qualche tempo ancora da allineare, gira alla grande: il basso di Bob Glaub è un motore sempre sbuffante, le due coriste Chavonne Stewart e Alethea Mills regalano colore anziché maniera, le tastiere di Jeff Young sverniciano gospel dappertutto, la batteria di Mauricio Lewak passa in un batter d’occhio dai vapori del country & western all’esuberanza del funky e pure la sei corde dell’inglese Shane Fontayne (pessimo nell’accompagnare il Bruce Springsteen post-E Street Band del tour ’92/’93, ottimo nelle fila dei Lone Justice o nel gruppo di accompagnamento di Marc Cohn) riesce in più di un’occasione, in modo particolare la Strato, a confezionare assoli à la Mark Knopfler che sembrano fatti della stessa spuma dolce delle onde del Pacifico. Se viene dato grande risalto ai pezzi dell’ultimo Standing In The Breach, i battimani degli spettatori diventano in ogni caso assordanti nei pressi della classica These Days (peraltro preceduta da una rara For Taking The Trouble, dal sottovalutato The Naked Ride Home [2002], in chiave rocciosa e bluesy) e del dittico For A Dancer / Fountain Of Sorrow, preposto a concludere il primo set in un «tempo ritrovato» dove la voce e il pianoforte di Browne sembrano davvero essere l’unico risarcimento possibile per troppi sogni dissolti nel nulla.
La seconda parte del concerto si apre con il bottleneck di una Your Bright Baby Blues quasi morriconiana e con la melodia spumeggiante di Rock Me On The Water, s’infiamma di politica nelle cadenze spagnoleggianti di una sorprendente Lives In The Balance e raggiunge un culmine irripetibile di intensità folkie nell’apologo della The Road di Danny O’Keefe. Di fronte allo spiritual esistenzialista e laico di Late For The Sky esplode il teatro, e alle prime note di Doctor My Eyes tutti gli spettatori si alzano in piedi e, nonostante le (inutili) rimostranze di un servizio di sicurezza quanto mai restrittivo, raggiungono la zona sottostante il palco per gremirla di canti, balli e acclamazioni. Durante l’inno rockista di Running On Empty se ne vanno sindaco, assessore alla cultura e questore, tutti presenti in sala, ma nessuno (giustamente) ci fa caso, perché, per qualche minuto almeno, la bellezza e il pathos di una canzone riescono a parlare alla vita, all’uguaglianza profonda di tutti, molto più (e con maggiore profondità) di qualsiasi autorità cittadina.
Oltre due ore di concerto, venti canzoni in tutto e un ulteriore bis dove il country-rock dell’intramontabile Take It Easy si fonde alle chitarre soul di una Our Lady Of The Well dal sapore vanmorrisoniano: in un’epoca post-tutto, in cui la parodia si confonde con la tragedia e né l’impegno né la politica riescono a offrire uno straccio di salvezza, ci pensano le canzoni di Jackson Browne – l’avreste mai detto? – a restituirci il senso, l’umanità e l’esperienza collettiva dello stare al mondo, e di farlo, una volta tanto, insieme.