Nell’ultimo anno è la terza volta che mi capita di vedere dal vivo i Dry Cleaning. Era successo al Todays, poi all’End Of The Road e stavolta al Magnolia di Segrate (MI), dove finalmente hanno recuperato una data ovviamente rimandata a causa della pandemia. Sono una delle band del momento i Dry Cleaning, autori di un esordio che l’anno scorso è finito in quasi tutte le classifiche dei dischi migliori del 2021 (quasi sempre nelle prime posizioni) e che indubbiamente ha saputo accendere la fantasia degli ascoltatori, proponendo una versione diversa e abbastanza personale di quello che oggi ci ostiniamo un po’ tutti a chiamare ancora post-punk (anche se i “post” da mettere prima della parola “punk” dovrebbero ormai essere almeno cinque o sei, se volessimo essere precisi).
Ad accoglierli in questa serata di fine aprile c’è quindi, giustamente, un pubblico di tutto rispetto. Non c’è il sold out ma, da quello che sto vedendo, un po’ per l’improvvisa abbondanza dell’offerta, un po’ per il probabile timore che molti ancora hanno nel recarsi in luoghi affollati, per quello forse c’è da aspettare ancora un po’. È un piacere, comunque, trovarsi una volta tanto in mezzo a un pubblico transgenerazionale, dove giovanissimi e cinquantenni sono fianco a fianco, sintomo di una musica capace d’intercettare sensibilità inevitabilmente diverse.
La serata è aperta dalla singer-songwriter Maria Somerville, un album autoprodotto alle sue spalle, ma una firma già depositata presso 4AD a segnare il suo presente e il suo futuro. Proprio al sound storico dell’iconica etichetta di Ivo Watts-Russell sembrerebbero alludere le sue evanescenti e diafane canzoni dream-pop, cantate con voce filiforme e accompagnate da una chitarra e da drones riverberanti. Difficile dare un giudizio da una così breve esibizione e quindi andiamo oltre.
La prima cosa che colpisce sempre osservando i Dry Cleaning, nelle foto come su un palco, è quanto poco c’azzecchino fra di loro da un punto di vista strettamente visivo. Se per molti gruppi basta guardare una foto per capire a grandi linee cose suonano, con loro è quasi impossibile: il bassista Lewis Maynard lo si immaginerebbe facilmente in un gruppo metal, il chitarrista Tom Dowse, coi capelli rasati e i tatuaggi in vista, te lo figureresti in una band hardcore, quanto alla vocalist Florence Shaw ti verrebbe forse da collocarla tra bucolici scenari folk.
Niente di tutto ciò ovviamente e questa è una delle prime cose che inevitabilmente stuzzica un po’ la fantasia. Il contrasto, o la complementarità se preferite, tra Florence e il resto della band comunque esiste e questo è uno dei motivi d’interesse. Se la sezione ritmica è rocciosa, precisa e potente, una base notevole su cui fare affidamento, il suono dei Dry Cleaning ha i suoi punti di forza in due elementi apparentemente divergenti, ma che alla fine trovano la quadra fra loro e tutto il resto: parlo ovviamente da una parte dello stile chitarristico di Dowse, bravissimo nelle sue continue invenzioni, nello svolgere al contempo funzioni melodiche e rumoriste, riempiendo di effetti e piccoli scarti armonici le varie canzoni, nonché ricorrendo quando serve a qualche incisivo assolo, ponendosi insomma quale elemento essenziale alla riuscita delle canzoni; dall’altro agli spoken words di Shaw, da un certo punto di vista, come dicevamo, quasi slegati dal resto, ma in realtà perfettamente inseriti grazie a una voce distaccata ma incredibilmente carismatica, al ricorso a una sorta di monotono flusso di parole che si fa via via sempre più seducente, grazie anche a una sintassi interna che trova una via musicale tutta sua.
Dal vivo la cantante è una presenza magnetica e quasi enigmatica, capelli lunghissimi a incorniciarne la figura e un atteggiamento quasi austero e perso nel suo mondo, trance ipnotica dalla quale pare fuoriuscire solo nelle rare occasioni nelle quali pronuncia qualche battuta o si lascia andare a un sorriso, abbandonando un po’ il personaggio (tipo quando ringrazia la Somerville informandoci che l’avevano invitata a salire con loro sul palco, ottenendo però un rifiuto). Il contrasto tra la sua staticità (tutt’al più scalfita dal prendere in mano uno shaker o nell’abbassarsi a gestire dei nastri) e l’energia messa in mostra dagli altri tre comunque funziona e nell’ora di show non c’è la possibilità d’annoiarsi, grazie anche a una scaletta perfettamente organizzata e che proprio nel finale ha rilasciato alcuni dei momenti migliori, vedi una devastante Tony Speaks!, una sempre circuente Scratchcard Lanyard e l’encore con una notevolissima Conversation (uno dei pochi pezzi dove Florence accenna qualche parte cantata, dimostrando che volendolo potrebbe farlo), dopo che già in precedenza pezzi come Strong Feelings e New Long Leg, tra le altre, ci avevano ammalliato non poco.
Alla fine dello show, chiacchierando fra amici, ci si domandava quali margini di manovra avrà una band del genere in futuro. Fermo restando che è molto meglio godersi il qui e ora, lasciando ad altri momenti questioni del genere, sono emerse due ipotesi: un’avvicinamento a formule più pop, quindi canzoni “cantate”, forse a discapito dell’originalità del tutto; oppure un’ostinata aderenza alla formula attuale, perseguita con sottili variazioni, un po’ alla maniera dei Massimo Volume. Ché alla fine, a pensarci bene, non potrebbero in effetti essere davvero i Massimo Volume inglesi i Dry Cleaning? Ai posteri l’ardua sentenza, per il momento, grande band!