Foto © Rene Huemer

In Concert

Phish live a Commerce City, Colorado, 3-4-5/9/2021

I Phish sono tornati a suonare dal vivo il 28 luglio, un anno e otto mesi dopo il loro ultimo concerto. Il Covid li aveva costretti a posticipare le date estive e nel frattempo ne hanno approfittato per pubblicare quel disco in studio che da troppo tempo veniva rimandato: Sigma Oasis, i cui brani erano già stati lungamente provati sui palchi sia dalla band che da Trey Anastasio nei suoi concerti solisti, è un lavoro fresco e ispirato (molto di più del precedente Big Boat), che ha saputo trovare un perfetto equilibrio tra la bellezza delle melodie e le fughe strumentali che costituiscono la cifra principale del quartetto, soprattutto in sede live. 

I diciannove show che fin qui sono stati suonati ci hanno restituito una band in gran forma, che ha riempito ogni volta le canoniche tre ore con setlist che hanno spaziato dal passato remoto a quello recente, attraversando il presente (due i brani inediti presentati) e inanellando la solita infornata di cover. Sono state circa 180 le canzoni suonate, per una rotazione in scaletta che non ha eguali nella storia del rock, persino per quei Grateful Dead a cui Anastasio e soci vengono (a torto) spesso accostati. 

Che siano un act fuori dal comune lo si vede anche dall’esistenza di “LivePhish”, un’app a pagamento che permette agli abbonati di ascoltare tutti i concerti che il gruppo ha tenuto dal 2002 ad oggi (ogni show viene registrato e caricato sulla piattaforma nel giro di 24 ore), compresi quelli pubblicati in precedenza in formato fisico, nonché tutta l’attività solista dei quattro componenti. 

Dicevamo di questo tour, che è in realtà il recupero di quello della scorsa estate e di cui non sono stati praticamente messi in vendita nuovi biglietti. Per permettere a tutti di godere degli show, questi sono stati dunque trasmessi in streaming (in diretta e on demand per le successive 48 ore) attraverso l’app, un’iniziativa che era già stata intrapresa in passato e che molto probabilmente verrà ripetuta anche per la leg autunnale già programmata per ottobre. 

Le date estive terminano invece in Colorado, a Commerce City, una propaggine di Denver: tre show consecutivi in quel Dick’s Sporting Goods che negli ultimi anni è divenuto una delle venue preferite del gruppo. E la chiusura di un tour per una band come i Phish è sempre un’occasione speciale, ragione per cui, di tutti i concerti disponibili, ho scelto proprio di seguire questi. Certo, essere sul posto sarebbe stato meglio ma, nell’impraticabilità totale di una mossa del genere, ci accontentiamo anche di stare davanti allo schermo: non sarà come esserci davvero, ma è pur sempre un piacevole surrogato. 

Partiamo col dire che le riprese degli show sono davvero di altissima qualità, con tante telecamere a catturare da varie distanze e angolature quello che succede sul palco e tra il pubblico, la regia di Trey Kerr che valorizza in pieno anche lo splendido light design di cui il gruppo si avvale. L’esperienza, per quanto virtuale, vale dunque il prezzo del biglietto (che rimane comunque ben poco economico, essendo tarato sugli standard statunitensi) e non nascondo che mi sono accinto alla visione (in differita, perché va bene tutto, ma tre serate a tirare mattina davanti a uno schermo anche no) con un certo entusiasmo. 

Qui di seguito ecco dunque alcuni brevi appunti su ciò che è successo in ciascuna di queste date di chiusura. 

Foto © Rene Hueme

Night 1 (Venerdì 3 settembre) 

Immagino che ci sia stata parecchia tensione nell’aria: tre giorni prima, allo Shoreline Amphiteatre di Mountain View, in California, Anastasio e soci si sono prodotti in una Jam da 47 minuti durante Soul Planet, un brano proveniente dal repertorio del chitarrista. I maniaci delle statistiche dicono che sia stata la terza più lunga di sempre, nella loro storia ultra trentennale. Trattandosi delle ultime date, ci si aspetta che si ripetano o addirittura si superino. In che modo lo faranno? Tirando fuori pezzi che non hanno mai suonato dal vivo (penso per esempio a Fluff’s Travels, dall’esordio Junta)? Improvvisando per un’ora di fila sulle note di Run Like An Antelope o Tweezer? Non ne ho idea ma sono pronto a scommettere che fuori e dentro lo stadio dei Colorado Rapids discorsi del genere se ne saranno sentiti parecchi. 

Per il momento si parte nella maniera più canonica, con una 46 Days che è uno di quei brani che i nostri suonano abbastanza spesso, anche se raramente lo utilizzano come opener. È una versione robusta, con un assolo di Trey piuttosto essenziale, che ha più che altro il compito di scaldare il pubblico. La successiva Party Time prosegue sulla stessa falsariga e lo stesso fa Steam, che degli episodi di Sigma Oasis è una di quelle che dal vivo funziona meglio; siamo comunque ad inizio show, non la tirano tanto lunga e preferiscono buttarsi su Yarmouth Road, che proviene dalla carriera solista di Tim Gordon e che viene da lui cantata in maniera convincente, con i fan in platea che ondeggiano al ritmo reggae del pezzo. 

Il successivo attacco di basso viene accolto dal primo grande boato della serata: è Foam, classico della prima ora, ed è il momento in cui i quattro si lanciano nella prima improvvisazione importante dello show, oscillando con disinvoltura tra Jazz e Prog, con Trey Anastasio e Page McConnell a far dialogare i rispettivi interventi. 

Vultures è una gradita tour première (in precedenza era arrivata anche una bella rarità come Timber): un pezzo di Trey in cui le parti vocali sono però distribuite tra tutti, compreso il batterista Jon Fishman, che se la cava benissimo nella sezione centrale. 

Pausa breve per salutare il pubblico (i Phish non sono una band da lunghi discorsi o comizi, di solito suonano per ore senza dire una parola) e concedersi un momento di scherzosa commozione con tanto di fazzoletti, per ricordare il decimo anniversario dei loro concerti a Commerce City: è infatti dal 2011 che il quartetto del Vermont utilizza il Dick’s Sporting Goods durante il weekend del Labor Day (primo lunedì di settembre) per chiudere la leg estiva del tour.

Personalmente sono molto contento dell’esecuzione di Pebbles and Marbles, traccia di apertura di quel Round Room che è forse il più “live” tra i dischi in studio della band ma che inspiegabilmente non è mai stato troppo valorizzato dai suoi autori (per dire, questa l’hanno suonata solo 23 volte dal 2002). 

Il riff di Carini, modellato su quello di Kashmir dei Led Zeppelin, provoca un moto di comprensibile entusiasmo: tra gli inediti degli ultimi anni è una delle più amate ed a ragione, visto che è potente, melodicamente incisiva e di solito è il punto di partenza per alcune delle Jam più belle. Anche stasera è così, sono 22 minuti dagli echi psichedelici che costituiscono un highlight assoluto del primo set e anche il modo migliore per chiuderlo. 

Menzione particolare per l’inquadratura dall’alto sulla marea umana che ondeggia al ritmo della musica: immagini normali ma che da inizio 2020 non ci capitava più di vedere. Inevitabile un brivido lungo la schiena e la domanda: quando anche da noi tornerà così?  

Il secondo set, che arriva dopo un break di circa mezz’ora, ha come momento culminante un classico da improvvisazione come Chalk Dust Torture: ovviamente dura tantissimo, inizialmente seguendo l’andamento rockeggiante delle strofe, poi divenendo via via più ipnotica, con Page che gioca sulle tastiere, Trey che si diverte nei fraseggi solisti, Jon Fishman inarrestabile motore ritmico. Ci sono poche variazioni sul tema ma è decisamente coinvolgente, è impossibile non farsi rapire. Poi succede che piano piano la propulsione si esaurisce e si entra, quasi senza accorgersene, nelle atmosfere sognanti di Beneath the Sea of Stars, tratta dal progetto Ghosts of the Forest, i cui brani sono una presenza costante in questo tour. Ne viene eseguita solo la prima parte, prima di buttarsi in Light, tratta da Joy, a mio parere uno dei dischi più belli della fase Post reunion. 

Il finale è tutto dedicato ai brani vecchi, quelli preferiti dai fan, quelli che di solito hanno proprio il compito di rendere ancora più vivaci le danze. Questa sera c’è il robusto rockabilly di Runaway Jim e poi la lunga cavalcata di Slave to the Traffic Light

Nei bis si continua ad attingere al repertorio più datato: dapprima Cavern, splendida versione tutta da ballare, poi l’atmosfera si addolcisce, con le pennate leggere di Trey e i delicati accordi di piano di Page ad introdurre Waste, una delle loro ballate più belle. Trey la chiude con un assolo meraviglioso e sembrerebbe finita qui, invece, mentre sfumano gli ultimi accordi, il chitarrista scambia uno sguardo d’intesa con Mc Connell e parte Good Times, Bad Times. Non è una novità, la band ogni tanto usa questo brano degli Zep per chiudere i concerti, ma tre bis, in questo tour, sono veramente una rarità. Qui Page si mette in luce nelle parti vocali più alte dimostrando una discreta tenuta ed un timbro che, lo sappiamo da tempo, è sicuramente più interessante di quello di Anastasio, che pure è il lead singer del gruppo. 

Night 2 (Sabato 4 settembre)

Se l’inizio di ieri era stato scontato, oggi si parte col botto: l’accoppiata Alumni Blues/Letter to Jimi Page è sicuramente tra le cose che ogni fan sognerebbe di vedere prima o poi. Versioni molto divertite, tanti sorrisi e un’atmosfera di generale relax che in qualche modo dà il mood di quello che si vedrà nel corso della serata. 

La successiva Turtle in the Clouds è splendida e vede tutti e quattro impegnati dietro al microfono, mentre il balletto sincronizzato di Trey e Mike al ritmo del solo di tastiera conferma che si stanno davvero divertendo alla grande. Blaze On continua questo clima festaiolo, un brano semplice che amo particolarmente e che dal vivo rende veramente bene, grazie soprattutto ad un refrain molto coinvolgente. È questo il momento per la prima grande Jam del concerto, dapprima psichedelica, poi più classica, col piano in evidenza che lascia successivamente libera la chitarra, per un’improvvisazione particolarmente melodica. 

Cool It Down, direttamente da Loaded dei Velvet Underground, è una piacevole sorpresa, il gruppo l’aveva suonata solo nove volte in precedenza; Ghost è invece un grande classico e una presenza più o meno costante, era ovvio che in una delle tre date l’avremmo ascoltata. Qui mi hanno colpito soprattutto i giochi di luce, che hanno simulato l’apertura e la chiusura di un sipario. 

Il primo set, che si sta segnalando per essere particolarmente movimentato, si chiude con una bella botta di groove, con Ya Mar e Undermind (anche quest’ultima è una delle mie preferite, anche perché è tratta dal primo disco in assoluto che ho comprato di questo gruppo) che flirtano entrambe con sonorità reggae; Tube è un’altra amatissima dai fan ed è un gran bel momento, una Jam che inizia in sordina e sfocia poi in un lavoro chitarristico di grande effetto. Per non farsi mancare nulla, la prima parte si chiude con una David Bowie da 12 minuti e ce ne andiamo a fare pausa tutti contenti. 

Durante l’intervallo viene proiettato un gustoso filmato di Trey che svela i segreti della numerosa strumentazione che utilizza sul palco ma sinceramente è roba per chitarristi, io passo oltre. 

Si riparte con una Everything’s Right che dura 25 minuti, ha dentro un po’ di tutto, persino un po’ di Funk, e costituisce l’ennesima conferma della bontà del materiale di Sigma Oasis: durante questo tour i Phish hanno eseguito più di una volta tutte le dieci canzoni dell’album e sono sempre stati momenti spettacolari. Segue una Fuego bella compatta che fa ballare tutti (anche questo è un gran disco, prodotto da Bob Ezrin, è sicuramente uno di quelli col suono migliore) e poi una Farmhouse molto delicata, con un gran bel lavoro armonico di Page alle seconde voci. Poi ancora Sigma Oasis con Mercury, davvero intensa, a proseguire quello che è davvero una fase di grazia del concerto. 

Si può fare di meglio? Evidentemente sì, visto che arriva Seven Below, altra tour première, sempre da quel Round Room di cui abbiamo detto prima. E ancora, un nuovo tuffo in Ghosts of the Forest con Drift While You’re Sleeping, echi di Prog e momenti più rockeggianti, da singalong. 

Era abbastanza scontato che arrivasse e difatti arriva: You Enjoy Myself è probabilmente il brano simbolo dei Phish, quello che vanta il più alto numero di esecuzioni dal vivo e terreno fertilissimo per le Jam più lunghe e fantasiose. Trey e Mike disegnano ancora le loro buffe coreografie mentre Page divora i tasti dell’organo con un assolo molto settantiano. Jam ampia, come da tradizione di questa song, che ad un certo punto diviene vorticosa, con chitarra e tastiera che si alternano nei soli e Mike che va a prendere la parte bassa del manico, prima della solita parte di cazzeggio vocale con cui normalmente concludono. 

Di bis questa sera ce n’è uno solo ma è speciale, una splendida rilettura di Bold As Love di Jimi Hendrix, con tanto di solo chitarristico lungo e particolarmente Old Style, quasi da cliché del rock. 

Si va a riposo con la sensazione che la serata successiva potrebbe essere ancora migliore.

Night 3 (domenica 5 settembre) 

Il grande interrogativo di oggi è: riusciranno i nostri a raggiungere la quota delle 200 canzoni complessivamente suonate in questo tour? Dopo ieri sera siamo a 194, ne mancano 6 e la sensazione è che ci abbiano preparato qualche sorpresa… 

Si apre con The Moma Dance ed e subito groove, le vibrazioni positive si sprigionano assieme ai sorrisi e al gran bel feeling tra band e pubblico che anche noi da casa riusciamo a percepire. Fishman si va a prendere le parti vocali e lo fa con grande sicurezza, mentre le prime file si scatenano nelle danze. 

McGrupp and the Watchful Hosemasters segue a ruota ed è la prima tour première della serata, la sensazione è che a 200 ci arriveremo senz’altro. 

Sand è una sicurezza, il basso è in primo piano e fa da introduzione alla prima lunga Jam del concerto. Poi una solidissima Sigma Oasis, senza dubbio uno dei pezzi più credibili che abbiano composto negli ultimi anni che, come sempre in questo tour, funziona perfettamente. 

La seconda tour première è All of These Dreams, splendida ballata da Round Room che si avvale di ottime armonizzazioni vocali e vera e propria rarità, visto che si tratta della 13esima esecuzione dal 2002. 

Reba è un grande classico che vive delle improvvisazioni e che anche stasera non si smentisce, con Trey che si cimenta in un solo molto teso e vissuto mentre Page picchia sui tasti del piano e Fishman dà una bella accelerata nella parte finale. Tutto bellissimo, compresa la chiusura improvvisa, nel bel mezzo della festa. 

Quando parte Bathbub Gin, col suo andamento rockeggiante e il suo testo a la Dylan periodo Sixties, intuiamo che il primo set potrebbe chiudersi qui, cosa che puntualmente avviene. È un po’ più breve rispetto alle sere precedenti ma data l’intensità non credo ci sia da lamentarsi. 

La seconda parte inizia all’insegna del repertorio solista di Trey Anastasio: prima una superba Set Your Soul Free, veicolo di un’altra Jam monumentale, poi Lonely Trip, che col suo andamento contemplativo costituisce la perfetta controparte della precedente. 

Simple è un altro classico che difficilmente poteva mancare, poi eccoci di nuovo con le tour première: la prima è Catapult ed è una vera chicca, Trey e Mike si dividono i versi delle strofe, la versione è ipnotica e con sfumature Electro, davvero un bel momento. Ecco poi una divertente Meatstick, col suo riff che scimiotta Fire on the Mountain dei Grateful Dead, andamento sbilenco dato dal lavoro di tastiera, coda suggestiva, con richiami sia a Catapult sia a Lonely Trip

Possiamo dire che è stato l’inizio di set migliore di queste tre sere? Possiamo dirlo. 

Ruby Waves è il momento Ghosts of the Forest della serata ed è una bella cavalcata gioiosa, che si trasforma successivamente in una lunga e interessante improvvisazione. 

Ci siamo. Sfumano le ultime note, piano piano prende forma la strumentale Bliss che sfocia come da copione in Billy Breathes, che in 25 anni si è sentita non più di una sessantina di volte. Siamo a 200 e non poteva esserci canzone migliore per tagliare il traguardo. 

C’è ancora bisogno d’altro? Forse di una Most Events Aren’t Planned ipnotica e ritmata, direttamente dal repertorio Vida Blues, con una Jam che parte piuttosto cupa, poi accelera e diventa davvero spettacolare, con Trey e Page che prendono entrambi il volo sui loro strumenti. 

Potrebbe finire qui ma è giusto congedarsi con un grande classico come Harry Hood che, inutile dirlo, è un’altra versione meravigliosa. 

È il momento dei bis. More suona particolarmente azzeccata, saluto e dedica affettuosa al pubblico che li ha seguiti in questi 22 concerti, un pezzo che spalanca alla dimensione più autentica del reale, col suo “There must be more than this” scandito nel ritornello.

Potrebbe tranquillamente concludersi qui ma i nostri decidono di pigiare per l’ultima volta sull’acceleratore ed ecco dunque Say It to Me S.A.N.T.O.S., una delle finte cover della finta band Kasvot Växt, uno scherzetto simpatico che i Phish hanno giocato ai loro fan durante il tradizionale concerto di Halloween nel 2018 a Las Vegas. Gran bel pezzo, potente e incisivo, con un ritornello anthemico e una ritmica potente, l’ideale per chiudere le danze. 

Ci rivedremo tra un mese, quando partirà la leg autunnale. Purtroppo noi saremo ancora davanti a uno schermo perché, soprattutto nella situazione attuale, non è umanamente ipotizzabile che una band del genere passi in Italia. 

Ci accontenteremo dunque di osservarli da lontano, contenti nonostante tutto di poter far parte anche noi, nel nostro piccolo, di così tanta bellezza. 

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