Recensioni

Mike Hudson & The Pagans, Hollywood High

mikehudsonMIKE HUDSON & THE PAGANS
Hollywood High
Ruin Records
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Mai del tutto compiuta, mai del tutto abortita, la carriera perennemente «in divenire» dei Pagans, gruppo seminale (come Devo e Pere Ubu proveniente dai freddi sobborghi di Cleveland,Ohio) della prima ondata del punk americano, sembra trovare in questo Hollywood High, se non una sua forma di impossibile compimento, un riassunto forse definitivo delle rabbie, le ferite, le abrasioni (acustiche e non solo), le amarezze e le disillusioni sperimentate dalla fine degli anni ’70 a oggi. Troppi, e troppo repentini, i cambiamenti di formazione (abbinati a un’imprevedibile intermittenza dell’attività effettiva) occorsi alla band per sperare in un compendio capace di sintetizzarne i meriti, disseminati tra album postumi, 45 giri carbonari e antologie (dal vivo o in studio) di affidabilità variabile, in modo perlomeno credibile, ma questo ulteriore disco di Mike Hudson e dei suoi accoliti, a sette anni di distanza dall’ultimo attestato discografico ufficiale, sembra proprio scandire la risoluzione di un’esperienza talmente viva e sofferta da non poter più trovare, in epoca di ascolti digitali e musiche liquide, il suo respiro e la sua libertà di parola.
Per anni giornalista e scrittore (la sua autobiografia Diary Of A Punk, uscita nel 2008 su Tuscarora Books, andrebbe assunta come libro di testo nelle scuole), Hudson non ha mai smesso di inseguire la sua idea di rock’n’roll incandescente, ribelle e teppistico, modellata sulle imprese delle garage-bands degli anni ’50 e rivestita da una tonnellata di elettricità sferzante: Hollywood High è un po’ la summa di tutte le sfaccettature della sua scrittura sempre tagliente, una canzone d’autore violenta e frontale dove si scontrano Stooges, hard settantesco, riff pesanti come macigni, solitari paesaggi urbani e rasoiate di rumore bianco. La slide di Keith Cristopher (Georgia Satellites), l’armonica di Marvin Braxton (BB King), i tamburi di Tony Matteucci (Etta James), il basso di Jimmy Bain (Rainbow) e la truculenta sei corde di Loren Molinare (Little Caesar) contribuiscono a otto canzoni in grado di evocare tanto il romanticismo aggressivo e pestone dei Thin Lizzy quanto l’epica punk-rock dei Social Distortion (i discepoli più fedeli di Hudson e soci) e Johnny Thunders, oppure i sontuosi melodrammi stradaioli degli Hold Steady.
Se l’assalto r’n’r dell’iniziale I Want A Date, il desolato affresco della title-track, le scariche chitarristiche dell’esplosiva I Just Got Up o il folk-rock stravolto e allucinato di Dark Angel ricordano il beat vertiginoso, punkeggiante e carico di melodia dei primi Mink DeVille, il lercio blues di Death Letter (Son House) e il ringhioso pugno nello stomaco di Detention Home, apocalittica invettiva presa in prestito dal repertorio dei concittadini Dead Boys, sprofondano Hollywood High in una tempesta da bassifondi i cui lampi elettrici, malati e perturbanti illuminano le zone più nascoste e abbandonate delle periferie americane. Negli otto e rotti minuti di Fame Whore, sofferto racconto dei compromessi di una ragazza di provincia sbarcata in una grande città (nei quali non è difficile leggere una requisitoria durissima e priva di consolazioni sulla parabola artistica di Hudson), la voce appesantita e strascicata del titolare evoca le litanie metropolitane di Lou Reed in zona Street Hassle, mentre le selvagge frustate della conclusiva (Us And) All Our Friends Are So Messed Up, febbricitante rivisitazione di un classico minore degli stessi Pagans, assomiglia, nella sua ferocia, a una dirompente trasposizione contemporanea della brutalità rhytm’n’blues degli Animals.
Malgrado gli anni e la fatica, Hudson continua a usare il rock come un congegno a orologeria in grado di radiografare le viscere del mondo per rovesciarle dentro epopee di sangue, sudore e rivolta: ha pagato, e continua a pagare, un prezzo altissimo, compensato (per modo di dire) da uscite a singhiozzo, scarso successo, riconoscimento minimo. Ma è normale così, perché in fondo, né Hudson né i suoi personaggi (men che meno le loro deflagranti trasposizioni sonore) conoscono, e come potrebbero?, la giusta causa.

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