MEMORIE DALLA QUARANTENA – THE LOCKDOWN DIARIES
Avrei potuto intitolare questo pezzo “Le Mie Prigioni – Vol. 2” dato che la mia vita dell’ultimo mese (abbondante) può essere paragonata a quella di chi è agli arresti domiciliari, con la variante che a me è consentito l’uso del cellulare e l’accesso a internet. A differenza di chi sconta una condanna penale entro le mura domestiche, e che quando si affaccia alla finestra vede un normale flusso di persone e autovetture in quanto il destinatario della pena è lui soltanto, io noto solo una sconfortante desolazione ed un’insolita disponibilità di parcheggio sotto casa mia (che è situata in un’area residenziale ma con una buona quantità di piccole fabbriche ed uffici, cosa piuttosto comune nella cittadina in cui vivo, nell’alessandrino), dal momento che, come me, altre 17.000 persone circa, con le quali condivido la medesima area urbana, sono destinatarie della mia stessa condanna, e la canzone che mi viene in mente quando osservo la realtà esterna è Morning Dew, vecchio brano dal testo post-apocalittico della folksinger Bonnie Dobson resa però celebre dai Grateful Dead.
Una cosa che ho notato è il fatto che questa quarantena forzata ha reso tutti noi più cinici (complice forse la paura per la nostra salute e quella dei nostri cari, ma anche la grande preoccupazione per lo stop obbligato alle nostre attività lavorative): in tempi normali infatti quando succede, che so, un incidente ferroviario con una quindicina di vittime, oppure crolla un ponte come è il caso di Genova due anni fa (43 i morti allora), la notizia desta una grande impressione e si prende giustamente le prime pagine dei giornali e buona parte della durata dei telegiornali per settimane intere, mentre oggi siamo quasi contenti se alla fine della giornata ci sono “solo” 300-400 morti in tutta Italia (in pratica, una strage), perché vuol dire che il virus sta regredendo. E non dite che ragioniamo così perché la cosa non ci tocca da vicino: tra le persone decedute nella mia città un paio le conoscevo benissimo, ma soprattutto ho mio suocero ricoverato a Torino dall’11 marzo con virus e polmonite (periodo nel quale non ha potuto ricevere neanche mezza visita), anche se fortunatamente sta migliorando giorno dopo giorno e i dottori si sono sbilanciati dando il 100% di possibilità di mandarlo a casa sulle sue gambe.
Gli unici, e sottolineo unici, fatti positivi (meglio forse dire “non negativi”) di questa situazione sono due: il primo è sicuramente la riscoperta della famiglia, cosa che per me ha un grande valore e che posso riassaporare soprattutto per quanto riguarda mio figlio (dato che con mia moglie ci lavoro pure), che compiendo 19 anni fra un paio di mesi è nell’età per la quale l’abitazione è più un albergo che altro, talvolta anche con trattamento di mezza pensione in quanto a cena preferisce (giustamente) la compagnia di amici e amiche. Il secondo fatto positivo è il parecchio tempo libero a disposizione, cosa sempre più rara al giorno d’oggi, che mi ha dato la possibilità di dedicarmi anima e corpo ai miei hobby “da divano”: musica, libri e cinema.
La mia giornata è strutturata in maniera piuttosto rigida: la mattina, dopo essermi alzato a un orario imprecisato tra le otto e le nove, la dedico alle rare uscite che mi sono consentite (non ho cani da portare a spasso, e quindi dò il cambio ogni tanto a mia moglie per la spesa e mi reco talvolta in ufficio – nel mio lavoro lo smartworking è di difficile applicazione – per la posta e per rispondere a qualche mail urgente, favorito dal fatto che per farlo devo percorrere appena 30 metri a piedi), e non approfitto della situazione come fa qualcuno che fa la spesa tutti i giorni, anche perché la mia autonomia con l’indispensabile mascherina raggiunge a malapena la mezz’ora.
La restante parte della mattina è destinata alle recensioni, sia per il Busca che per il blog del “nostro” Bruno Conti, al quale collaboro da diversi anni. Poi, dopo pranzo (quando non devo aiutare mio figlio con qualche materia scolastica, dato che fra non molto dovrà sostenere un esame di maturità, con quali modalità al momento non è dato sapere), posso finalmente dedicarmi alla musica, e in questo periodo sto riuscendo finalmente a recuperare, e in alcuni casi ascoltare per la prima volta (dato che a comprare dischi si fa presto, poi per ascoltarli ci vuole tempo, e ho cose sugli scaffali che attendono anche da qualche anno) diversi titoli, in particolare cofanetti.
Infatti ultimamente i miei ascolti si sono rivolti meno alle ultime novità, tutta roba ottima comunque: gli ultimi lavori di Marcus King, Blackie & The Rodeo Kings, il bellissimo tributo femminile a Tom Waits, lo splendido Dixie Blur di Jonathan Wilson, che è come prendere il Laurel Canyon Sound dei primi anni settanta e frullarlo insieme ai Flying Burrito Brothers e New Riders Of The Purple Sage, il notevole ultimo Pearl Jam Gigaton, per me il loro migliore da Binaural in poi. Non mi sono perso certamente la possibilità di ascoltare la sorpresa che i Phish hanno fatto ai fans con Sigma Oasis, anche se solitamente aborro lo streaming ma qui non avevo scelta: ebbene, per me siamo di fronte ad uno dei “dischi” dell’anno, un album di livello altissimo con i nostri ispirati più che mai sia dal punto di vista compositivo che da quello esecutivo (ed il fatto che l’album sia composto da brani che vengono suonati live già da anni ha aiutato non poco). In poche parole, il loro lavoro migliore dai tempi ormai lontani di Billy Breathes.
Su suggerimento del buon Conti, ho potuto ascoltare (sempre in streaming, ma in questi casi i supporti “fisici” esistono) alcuni nuovi gruppi, tra i quali vorrei consigliarne almeno due: The Blue Highways, band di ragazzotti londinesi che però fa musica Americana al 100%, l’album si intitola Long Way To The Ground ed in quaranta minuti scarsi vedono i nostri rifilarci una bella scarica di rock’n’roll elettrico influenzato da Tom Petty, Springsteen e Mellencamp, dieci ottime canzoni e tanta grinta; il secondo nome è quello dei Loose Koozies, band di Detroit che però suona esattamente come i primi Uncle Tupelo, paragone favorito dalla voce del leader che somiglia parecchio a quella di Jay Farrar: sono molto bravi, ed il loro debut album si intitola Feel A Bit Free.
Ma come dicevo prima, in questo periodo mi sono dedicato specialmente ai cofanetti, partendo dai “nuovi” Trouble No More degli Allman e da In A Lifetime dei Clannad, storica folk band irlandese a mio parere sottovalutata a causa di alcuni lavori con sonorità discutibili negli anni ottanta (ma chi non ha avuto problemi in quella decade? Ok, a parte Van Morrison, Paul Simon e Richard Thompson). Mi sono poi “sparato” l’ottimo The Girl From Chickasaw County della quasi dimenticata Bobbie Gentry, scoprendo non senza sorpresa che il suo album migliore non è il famoso esordio Ode To Billie Joe, ma i tre-quattro seguenti, compreso quello in duo con Glen Campbell; ho poi recuperato il box The Polydor Years 1986-1992 dei Moody Blues, non di certo il loro periodo migliore ma comunque con dentro pop songs gradevoli anche se dal suono commerciale (ma c’è anche lo splendido Live At Red Rocks con l’orchestra), ed un giorno che avevo bisogno di una scarica potente di elettricità ho optato per uno a caso dei quattro CD della ristampa di It’s Alive dei Ramones, puro punk’n’roll al suo meglio.
Al momento sto ri-espolorando il fantastico Skydog, box di sette CD dedicato al grande Duane Allman, che ripercorre la sua purtroppo breve carriera dando parecchio spazio anche alla sua abilità come sessionman su dischi altrui. Nella mia lista dei prossimi ascolti ci sono, in ordine sparso, il quadruplo Beyond The Blues di Gary Moore, il box deluxe dedicato all’esordio dei Roxy Music, l’ormai “datato” triplo Nothing More dei Fotheringay, l’edizione espansa dell’Irish Tour ’74 di Rory Gallagher, il cofanetto di Loaded dei Velvet Underground, fino al completamento dell’ascolto (non ci sono ancora riuscito) del monumentale box di 19 CD dedicato a Sandy Denny uscito nel 2010 in edizione limitata. Nell’attesa di ricevere (al momento pare in fase di sdoganamento), il nuovissimo June 1976 dei Grateful Dead.
Ma se la musica faceva parte della mia vita anche prima, questo periodo mi ha dato modo di sfruttare in maniera finalmente adeguata l’impianto di home cinema che mi sono concesso quando abbiamo trasclocato cinque anni orsono, con la visione di un film diverso ogni sera preso dalla mia collezione di DVD e BluRay. Non sono infatti un amante della televisione, normalmente la guardo solo per i telegiornali e per le (ora sospese) partite di calcio, sport di cui sono grande appassionato al punto da aver rinnovato per il settimo anno consecutivo il mio abbonamento allo Juventus Stadium (e, confesso, anche per Masterchef, programma che mi ha sempre divertito). La cosa bella è che questa mia “nuova” abitudine ha coinvolto anche mio figlio, che ogni tanto si unisce a me per la visione, e le sue richieste promettono bene per il futuro: Arancia Meccanica e Forrest Gump li abbiamo già visti (più una concessione alla pura evasione con l’ulitmo Mission Impossible, Fallout: adrenalina pura), mentre tra i prossimi vorrebbe assistere a Pulp Fiction, C’era Una Volta A Hollywood, Argo, The Wolf Of Wall Street e Il Delitto Perfetto di Hitchcock (grande film, ma sarei curioso di sapere chi gliene ha parlato – e poi dovrò cercarlo in streaming).
Per quanto mi riguarda, visto il periodo cupo ho cercato di privilegiare i film di intrattenimento, sempre però di qualità (adoro poi rivedere le pellicole più volte, soffermandomi di volta in volta sui dettagli, i dialoghi, le recitazioni, i virtuosisimi registici, ecc.): quindi Collateral (ottimo thriller di Michael Mann, uno di quei film “tutto in una notte” sulle strade di Los Angeles con un soprendente Tom Cruise nel ruolo del villain), I Soliti Sospetti (uno dei polizieschi più originali in circolazione ed un finale jaw-dropping, e poi c’è Kevin Spacey che, malefatte private a parte, è il miglior attore americano degli ultimi 25 anni), The Untouchables (mitico film di Brian DePalma sulla squadra incaricata di incastrare Al Capone, con Sean Connery premiato con l’unico Oscar della carriera – uno scandalo che lui e Al Pacino abbiano tante statuette come Nicholas Cage – e con la scena alla stazione di Chicago che mi lascia sempre a fiato sospeso), Ogni Maledetta Domenica (di Oliver Stone, uno dei migliori film a sfondo sportivo mai fatti, godibile anche per chi come me non capisce una mazza di football americano, anche se comprendo la passione del pubblico statunitense per questo sport – meno, molto meno, per il baseball – con un immenso Al Pacino nel ruolo del coach vecchia maniera tutto grinta e sudore – uno come Antonio Conte conoscerà questo film a memoria – e una perfida Cameron Diaz nella miglior parte della carriera), un paio di legal thriller tratti da John Grisham (Il Momento Di Uccidere, metà “giallo” e metà denuncia sociale e con un cast della Madonna, e La Giuria, forse più convenzionale ma con uno spettacoloso Gene Hackman), ed altrettanti polizieschi presi da romanzi di Michael Connelly (Debito Di Sangue, con un invecchiato ma sempre lucido Clint Eastwood in un thriller più psicologico che d’azione, ed il sottovalutato The Lincoln Lawyer, con Matthew McConaughey perfetto nella parte dell’avvocato difensore solo all’apparenza cinico), oltre ad un paio di pellicole d’annata del già citato Pacino (il discreto Seduzione Pericolosa, con l’attore italo-americano nei panni di un detective a caccia di un/una serial killer che uccide uomini legati nudi al letto con il successo pop a 45 giri del 1959 Sea Of Love che gira sul piatto, e il formidabile E Giustizia Per Tutti, dramma legale del 1979 diretto da Norman Jewison sulla corruzione nelle aule di tribunale).
Ma soprattutto sto dedicando le mie serate “cinematografiche” al ripasso del mio regista preferito di sempre, ovvero Stanley Kubrick: rivedendo i suoi film (al momento mi manca il primo periodo da Rapina A Mano Armata a Spartacus, ma ci arrivo nei prossimi giorni) sono giunto alle seguenti considerazioni:
In Lolita (film assai audace per il 1962, ma paradossalmente sarebbe ancora più difficile da far accettare oggi) non vedo l’ora che arrivi sulla scena Peter Sellers, per chi scrive il più grande attore comico di tutti i tempi. La geniale comicità proprio di Sellers è la principale ragione per vedere Il Dottor Stranamore, dal momento che la commedia non è esattamente il pane di Kubrick Arancia Meccanica è di un’attualità sconvolgente ancora oggi (e avrei proprio voluto vedere il riservatissimo Stanley alle prese con gli odierni social media). Barry Lyndon, da sempre considerato l’anello debole della filmografia del regista newyorkese, è un ottimo film in costume nonostante le tre ore di durata, reso spettacolare dalla fotografia che rende ogni singola scena simile ad un dipinto del Settecento. Shining mi mette i brividi anche alla ventesima visone. Full Metal Jacket contrappone una prima metà sensazionale ad una seconda più “convenzionale” (termine rapportato alle incredibili doti di Kubrick).
Ho lasciato da parte due titoli, il primo dei quali, Eyes Wide Shut, è un film che ho rivalutato molto rispetto alla mia prima visione al cinema: all’epoca non ne avevo capito granché il senso, e lo avevo giudicato eccessivamente lento e formale, ma quando l’ho rivisto mi è piaciuto molto, dalle scenografie (una New York spettrale – sinistramente simile a quella purtroppo attuale – interni eleganti e decisamente “kubrickiani”), all’interpretazione degli allora coniugi Cruise, fino al senso di pura tensione che attraversa il film e che lo fa assomigliare ad un thriller nella seconda parte. Ho invece purtroppo dovuto rivedere il mio pensiero su 2001 – Odissea Nello Spazio (vi prego, non lapidatemi) che, a parte gli effetti speciali straordinari se pensiamo che si era nel 1968, ho trovato pretenzioso, autoindulgente e di una noia mortale, con i due protagonisti maschili totalmente privi di spessore (ma forse è una cosa voluta, la vera star del film è il computer di bordo Hal-9000), e soprattutto ho giudicato deliranti gli ultimi venti minuti, che se non sapessi delle abitudini sane di Kubrick li avrei giudicati opera di un regista in preda a chissà quali effetti allucinogeni.
Purtroppo una scaletta così “rigida” non mi sta dando l’opportunità di approfondire anche il mio terzo hobby, cioè la lettura: in questo periodo ho preso in mano solo due libri di due dei miei autori preferiti, La Notte Più Lunga del già citato Connelly e il molto meno recente Nevada Connection di Don Winslow, con protagonista il simpatico Neal Carey.
Spero dunque di non avervi tediato con il racconto delle mie giornate in (not so) splendid isolation, nella speranza che si possa tornare quanto prima a vivere una vita se non uguale il più possibile simile a quella che avevamo sino a poco più di un mese fa, e soprattutto di tornare a lavorare senza problemi ed abbracciare le persone a noi care.
E mi raccomando…stay safe!