Poche persone, una quarantina quando in altri paesi europei a cominciare dalla Germania fa sold out, ma quelle presenti si sono divertite un sacco e sono bastate poche canzoni per metterle tutte a ballare. Nick Waterhouse è personaggio d’altri tempi, una sorta di Buddy Holly da club di New Orleans con pantaloni a vita alta, giacca a righe, camicia bianca, cravatta ed un paio di occhiali che lo fanno assomigliare più ad un topo da biblioteca che ad un performer del rock n’roll. Al di là di quest’aspetto volutamente out of time, è capace di infondere con la sua musica un’allegria e un coinvolgimento che oggi è merce rara, cosa che mi ha fatto andare indietro nel tempo a certi concerti “minori” degli anni 80 al Prego di Milano (mi vengono in mente ad esempio i Mercy Seat), quando dei benemeriti sconosciuti ci mandavano a casa stupiti e del tutto appagati grazie a show che non dimenticavi facilmente.
L’esibizione di Nick Waterhouse e la sua band al Magnolia è stata una esplosione di bravura ed intelligenza musicale, uno show spumeggiante e caldo e ricco di spunti originali, dove in modo assolutamente informale sono stati shakerati rock’n’roll, rockabilly, rhythm and blues, soul, swing e scorze di surf music, all’insegna di un cocktail esilarante e col giusto tasso alcolico. Nonostante il pubblico esiguo, comunque attento e partecipe, con una presenza femminile che una volta tanto risultava numericamente maggiore a quella maschile, Nick Waterhouse ha suonato con la professionalità e la verve proprie di un concerto di ben altre dimensioni, cantando alla perfezione, suonando come si faceva negli anni cinquanta una Telecaster da spigolature rock n’roll, lasciando ampia libertà ai sei musicisti che si porta appresso di mostrare ognuno le proprie caratteristiche strumentali e vocali, pur nell’amalgama di un combo dal sound prodigiosamente vintage, dove l’analogico non è termine da sbandierare a vanvera ma il suono ruvido, genuino e non artefatto di tutta quella musica che l’America ha prodotto tra gli anni cinquanta e sessanta.
Ci vuole stile e gusto per riuscire in ciò, oltre ad una conoscenza “di nicchia” da collezionista quale Waterhouse è, e la band non è stata da meno. Perfettamente nel ruolo sono state l’avvenente corista afroamericana in fasciante tubino corto, l’arrembante sassofonista tenore e la maliziosa sassofonista baritono, la giovane bassista ed il barbuto batterista, oltre ad un tastierista che pareva appena uscito dalla sua giornata di lavoro in banca ma con l’Hammond riempiva da maestro tutti gli spazi lasciati dagli altri, facendo quello che si desidera sentire quando il rhythm and blues si abbraccia con il jazz e i fumi di un club dell’ora tardi regalano fascino black and blue ad una musica che non ha età. Un combo da leccarsi i baffi, qualcuno di New York, qualcuno della Louisiana, una californiana e lui, Nick Waterhouse nativo di Santa Ana, sobborgo di Los Angeles, alchimista delle sale di registrazione, maniaco del sound vecchio stile e arzillo miscelatore di un groove che ha il coraggio di coniugare Mose Allison con Dan Penn, Bert Berns con Ben Vaughn, Dick Dale con le Violent Femmes, gli Allah-Las con James Burton, Alex Chilton con Ty Segall.
L’inizio è subito scoppiettante e l’aria del Magnolia si scalda con le note di Some Place e Is That Clear, assieme a If You Want Trouble, Indian Love Call e I Can Only Give You Everything gli estratti del disco del 2012 Time’s All Gone. C’è ritmo, ci sono i sassofoni e quelle fugaci sortite di chitarra che pennellano di rock n’roll il tessuto soul. If You Want Trouble è una rumba bluesata dai colori della notte, potrebbe esserci anche Tom Waits se non che il sax baritono borbotta scontroso accompagnando le urla di Nick, Indian Love Call calca la mano sul lavoro del baritono come faceva una volta Steve Berlin con i Los Lobos, è una Los Angeles ai confini del barrio tra r&b e rock-blues, Is That Clear gioca in levare lasciando margine ai sassofoni per schiamazzare sporchi e arzilli. Da Never Twice arrivano la conosciuta Katchi col suo tono scanzonato e quella infarinatura r&b che ti fa venire voglia di ballare anche se hai appena sentito che nella stanza a fianco l’Inter sta rotolando da 2 a 0 a 2 a 3 col Dortmund, e poi Tracy che inizia come un brano di Cab Calloway per lasciare spazio alla corista, al batterista che si destreggia con le spazzole e ad un Hammond che jazza fluido e sensuale. Dallo stesso album viene ripreso LA Turnaround, ritmo vagamente latino e fiati nel barrio, ma è il recente Nick Waterhouse del 2018 a fare la parte del leone, esibito in lungo ed in largo. Black Glass è rock che sposa il soul, eccitante grazie al magnifico lavoro del sax baritono, Wreck The Rod e I Feel An Urge è rhythm and blues come lo poteva fare ai tempi Jackie Wilson, El Viv è un twangin’ anni 50 tutto strumentale che serve a Nick per presentare i suoi compagni e Song For The Winners e Wherever She Goes (She Is Wanted) sono due tra le canzoni che definiscono la caratura del concerto: una sorta di struggente mezzo tempo soul che cita Irma Thomas e Nina Simone ed una rumba divertente che fa cantare i quaranta disperati di una umida (fuori) e caldissima (dentro) serata da incorniciare. L’eterno potere del rock n’roll.