RICH HOPKINS & LUMINARIOS
Tombstone
Blue Rose
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Ogni volta che leggo il nome di Rich Hopkins mi tornano in mente, con una punta di nostalgia, gli anni in cui il reperimento di musica americana era più o meno affidato al catalogo cartaceo della tedesca Glitterhouse e tutti gli appassionati di classic-rock, in evidente crisi di astinenza, si attaccavano a qualsiasi fregatura lì reperibile purché – s’intende – provenisse dagli States. Hopkins, però, non arriva dal nulla: ha alle spalle un passato importante, sia come chitarrista dei Sidewinders (recuperate almeno il loro Witchdoctor, un RCA del 1988) sia come cuore pulsante della loro successiva e più interessante incarnazione, denominata Sand Rubies; inoltre movimenta da sempre la scena di Tucson, Arizona, cittadina dove risiede da decenni.
Dichiarate chiuse entrambe le esperienze, Hopkins, da solo o alla guida dei Luminarios, gruppo dalla formazione variabile seppur da qualche stagione abbastanza regolare nello schierare la sei corde supplementare di Jon Sanchez i tamburi di George Duron, la voce e le percussioni della compagna Lisa Novak, ha dal 1992 a oggi messo in fila una cosa come venti album diversi tra raccolte di inediti, antologie, parate dal vivo e progetti collaterali. Dettaglio che, avendo io pensato la sua carriera fosse al collasso già ai tempi di Dirt Town (1994) e Dumpster Of Love (1995), o se proprio vogliamo nei pressi dell’acustico Paraguay (1995), mi sorprende e mi inquieta al tempo stesso. Da un lato, infatti, mi rallegro del legame ancora saldo tra l’artista e la Blue Rose, l’etichetta teutonica che da sempre ne pubblica i lavori in Europa (qualsiasi tipo di lavoro, e anche più volte nello stesso anno: del resto, proprio in Germania il nostro può contare su di un agguerrito fan club); d’altro canto, siccome in questi anni ho ascoltato non tutta la sua produzione ma, diciamo, un album ogni tre (quindi una mezza dozzina di dischi), ogni volta trovandomi al cospetto di opere dalla piattezza quasi imbarazzante, mi domando quanto a lungo si possano rimasticare quelle due idee in croce prima di gettare la spugna. Dico tutto questo, sia chiaro, pur nutrendo una simpatia sconfinata nei confronti di Hopkins, epitome quasi proverbiale del rocker di serie B intento a barcamenarsi senza mai perdere di vista umiltà e modestia, e anzi sempre mantenendo un sorriso contagioso sulle labbra e mai rinunciando alla passione nei confronti di un suono dal drive chitarristico nervoso e viscerale, ottenuto portando il fraseggio epilettico di Neil Young & Crazy Horse a perdersi nel deserto (con occasionali contaminazioni tex-mex).
Tombstone, in virtù di un’indomabile vena rockista e di canzoni appena meno sbiadite del solito sotto il profilo della composizione, potrebbe essere il suo lavoro migliore degli ultimi vent’anni, ma si tratta comunque di un’affermazione da prendere con le pinze, perché Hopkins, oltre a non aver mai posseduto il carisma del frontman (né una voce particolarmente memorabile), non passerà certo alla storia per la felicità di scrittura. In ogni caso, benché continui a chiedermi per quale ragione la batteria sembri invariabilmente registrata in cantina, credo gli estimatori dello Young più acido e in generale chiunque apprezzi l’idea di una traduzione hard e psichedelica dei corregionali Gin Blossoms troveranno pane per i loro denti nei riff dilatati dell’epica Free Man e nella nevrastenia ritmica della pestata Home Of The Brave. Lo troveranno anche negli altri dieci brani del disco, più della metà dei quali è identica ai due modelli appena citati, mentre chi invece cercasse qualche (riuscita) variazione sul tema può rivolgersi al country-rock da bivacco della conclusiva Leona’s Waltz (davanti al microfono c’è il vetusto countryman texano Arnold Parker), allo spensierato jingle-jangle elettroacustico della deliziosa Hang On, al sontuoso talkin’ elettrico su crudo racconto western di Private Shaw o alla nenia funebre di Mourning Song (quest’ultima cantata dalla Novak).
Tirando le somme, Hopkins è ancora tra noi, con le sue cavalcate ossessive, il suo incessante diluvio di feedback, gli echi metallici del suo folk-rock impastato di sabbia rovente e visioni psichedeliche. Non ha cambiato nulla: ha fatto, insomma, solo ciò che poteva fare. E questo, forse, è il vero problema.