Mancavano dall’Italia dall’ottobre del 2014 i fratelli Carney, epoca in cui erano passati anche dal nostro paese col tour di Innocence. Chi c’era stato probabilmente si ricorda di concerti clamorosi e devastanti e avrà sofferto non poco per una così lunga assenza. Non hanno un nuovo disco in uscita i Pontiak, visto che questa tornata fa parte ancora del lungo tour a supporto di Dialect Of Ignorance, il loro ultimo album, uscito ormai un paio d’anni fa.
Col nostro paese hanno imbastito un ottimo rapporto, baciato da un discreto successo, testimoniato anche dalle numerose comparsate sui palchi dello stivale, che anche stavolta ha potuto contare su ben cinque date. Noi ci siamo recati a quella milanese, in quell’Ohibò che si sta sempre più confermando club d’altissimo livello per via della sua programmazione.
Ad aprire la serata c’era l’ex Watter Tyler Trotter col suo progetto in solitaria SowLow. Armato di chitarra, mellotron, synth ed effettistica varia, per una ventina di minuti ha dato vita ad un flusso sonoro nel quale ha fatto collidere pulsazioni elettroniche, psichedelia sognante, melodie ambientali, echi dub. Non spiacevole ma, almeno per quello che è stata la resa sul palco, nulla di autenticamente memorabile: tutto un po’ troppo timido ed evanescente, con nessun guizzo che sia riuscito a scuotere dal leggero torpore indotto.
Manco a dirlo, tutt’altra storia quando a salire sulle assi del palco i Pontiak. Tutti e tre barbuti, soprattutto Van Carney, il cantante e chitarrista, i tre brindano tra loro e col pubblico con tre bei bicchierozzi di grappa e in men che non si dica investono il pubblico con una tempesta elettrica che proseguirà per poco meno di un’ora e mezza, bis compreso.
I Pontiak sono il classico power trio, e per quanto la loro musica possa sembrare un qualcosa di molto semplice da spiegare e in fondo piuttosto classica, nella realtà è terreno d’incontro per suggestioni diverse. Sicuramente ci sono i riff dello stoner e le dilatazioni della psichedelia, gli elementi più in vista, ma nel loro sound s’incontrano armonie vocali in odor d’Americana e di folk, c’è a tratti l’ipnosi ritmica di certo kraut-rock, ci sono i volumi e le distorsioni dell’heavy rock.
Ossatura delle loro canzoni sono il basso pieno e distorto di un Jennings Carney continuamente impegnato a costruire fraseggi magari non intricatissimi, ma sempre di grande efficacia, e il drumming ipnotico, preciso, potente, capace d’improvvise sottolineature, di Lain Carney. Su questa base s’inseriscono le melodie di Van (spessissimo aiutato anche dai tre fratelli) e i suoi riff di chitarra, così come i suoi assoli e le sue svisate liquide.
È una formula apparentemente monocorde che i tre sono invece in grado di giostrare con autentica perizia, spostando l’asse della loro musica verso un elemento piuttosto che un altro, risultando ogni volta sempre piuttosto originali e unici. Quella live è ovviamente la loro dimensione ideale, un po’ perché è evidente quanto i tre si divertano a suonare tra loro davanti a un pubblico – non so se era per l’alcol o che cosa, ma hanno fatto tutto il tempo a ridersela sotto i baffi durante lo show – un po’ perché dal vivo il tutto raggiunge vertici di potenza ancora maggiore, sottolineata poi da una certa tendenza all’improvvisazione e alla dilatazione.
Qui all’Ohibò hanno attinto da buona parte dei loro album, concentrandosi soprattutto sugli ultimi, quelli maggiormente song oriented – e che canzoni! bisogna dirlo – facendo confluire i pezzi l’uno nell’altro come se si trattasse di un unico, magmatico fluire elettrico, a volte sparando fulminanti proiettili hard come Lions Of Least, altre volte perdendosi tra le spire dell’improvvisazione psichedelica più spinta, come accaduto in una clamorosa Easy Does It o in altri pezzi dell’ultimo disco come Ignorance Makes Me High o We’ve Fucked This Up.
Grandissima live band e grandissimo concerto!