BECK
Colors
Capitol Records
**
ST. VINCENT
Masseduction
Loma Vista
***1/2
Escono domani, 13 ottobre 2017, due dei dischi più attesi della stagione, intestati a due artisti tra i più amati e seguiti del mondo pop-rock contemporaneo. Entrambi i dischi si sporcano le mani flirtando in qualche modo col mondo del pop mainstream, con risultati come vedremo diametralmente opposti. Ecco le nostre recensioni di entrambi gli album.
Che da un certo punto in poi della sua carriera, per il sottoscritto, ma non solo, il suo meglio Beck lo abbia dato nei suoi dischi più intimisti ed acustici – Mutations, Sea Change, il precedente Morning Phase – non significa che non abbia saputo allestire degli album comunque personali e colmi di good vibrations anche quando era invece il groove ed un substrato sonoro decisamente più scoppiettante a caratterizzarne le gesta. Sia pur con diverse gradazioni, sia Midnite Vultures, che Guero, The Information o Modern Guilt, sia pur magari colpendo meno rispetto a vecchi classici come Mellow Gold o Odelay, rimanevano comunque scrigni in cui trovare sempre la zampata geniale, la melodia killer, quella scintilla luminosa che ha continuato a farci considerare il loro autore uno dei musicisti più importanti della sua generazione.
Se mi sono concesso questa rapidissima carrellata sulla discografia beckiana, sostanzialmente era per dire che, fino ad oggi, di plateali passi falsi, Beck non ne aveva mai commessi. Fino ad oggi, appunto. Chiunque abbia avuto già modo di sentire i singoli che hanno anticipato la pubblicazione di Colors, tredicesimo album del cantautore americano, avrà già senz’altro notato il sound orientato al pop più mainstream, estrogenato e poco propenso a lavorare sulle sfumature, quest’ultime perse per strada a favore di un suono boombastic e con tutti i cursori sempre al massimo. La produzione dello stesso Beck e di Greg Kurstin – uno famoso soprattutto per il suo lavoro con personaggi quali Adele, Katy Perry, Lana Del Rey, Lily Allen o Sia – ha tirato a lucido le varie canzoni rendendole perfettamente radiofoniche, il che, tradotto, saprete che basilarmente significa livellare qualsiasi artista alle logiche di un suono quasi sempre banale e profondamente impersonale.
Giuro che ci ho provato e riprovato a trovarcela l’anima di Beck qui dentro, ma proprio non ce l’ho fatta. Non che qui ci si trovi di fronte a qualcosa di raffazzonato: il tutto è chiaramente confezionato con grande professionalità, qualche melodia pop viene comunque fuori e il prodotto è senza dubbio assemblato con cura. Ma proprio qui sta il punto: non farò l’ingenuo sostenendo che esistano dischi fatti unicamente per l’arte (anche il più ostico e assurdo degli album ha un pubblico di riferimento a cui ambisce d’esser venduto, la qual cosa ne fa a sua volta un prodotto), il problema è semmai che qui Beck ha apparentemente deciso di giocare in un campionato diverso dal suo abituale, scimmiottando un Justin Timberlake qualsiasi, senza riuscire però a distinguersene in maniera sostanziale, finendo col mimetizzarcisi e perdendo tutta la propria specificità.
Non so neppure io se augurarmi, quantomeno per lui, che pezzi sicuramente molto melodici, ma anche profondamente artificiosi come Colors, Seventh Heaven, come una I’m So Free che t’aspetteresti al massimo dagli ultimi Red Hot Chili Peppers, come una No Distraction dal tempo in levare e tutto sommato anche intrigante (ma che sotto sotto è poco più che un pezzo minore dei Police), oppure un funky pompato e cantato in falsetto come Dreams, possano portare all’ampliamento del suo pubblico.
Per quello che mi riguarda, qui dentro si salvano una Dear Life in odor d’Elliott Smith e una ballata ariosa, quasi a là R.E.M., come Fix Me, guarda caso l’unico episodio prodotto dal solo Beck. Un po’ poco per non provare una cocente delusione, sintetizzata da un deciso pollice verso.
Tutt’altra storia per quello che riguarda Masseduction. Sembrano davvero lontani i tempi in cui, timidamente quasi, Annie Clark si affacciò come St. Vincent sulle scene musicali. Si parla di 10 anni fa esatti, epoca d’uscita dell’esordio Marry Me, l’album che segnava il passaggio dalla musica suonata per altri – almeno un quinquennio ondeggiante tra passaggi nei Polyphonic Spree o alla corte di Sufjan Stevens, nell’orchestra per 100 chitarre di Glenn Branca o presso Tuck & Patti – a più personali percorsi. Oggi è una delle musiciste più rispettate in circolazione, magari non una super star da milioni di dischi venduti, ma di certo una di quelle che fa immediatamente parlare di sé quando sta per accingersi a pubblicare un disco nuovo.
Di lei David Byrne, partner della Clark nell’album a quattro mani Love This Giant, ha detto che, pur avendola frequentata e avendoci scritto musica assieme, questo non è bastato per decifrarla completamente. Personalità intricata probabilmente, la quale si specchia in una musica in effetti di difficile leggibilità, non perché particolarmente ostica, tutt’altro, quanto piuttosto perché costruita come se fosse fatta a strati, apparentemente pop e facile a primo ascolto, ma sempre più complessa se guardata realmente da vicino. St. Vincent è una delle poche musiciste in circolazione in grado di flirtare col mainstream senza farsene soggiogare, assorbendolo anzi in una musica personale capace di raccogliere un pubblico trasversale, sia esso quello indie, quello rock, pop o dell’elettronica. Cosa non facilissima questa, e basterebbe porgere orecchio proprio al nuovo Beck per rendersene conto.
Dopo quel gran disco che era il precedente omonimo, Masseduction la vede intenta a pubblicare un album orientato a riflettere su sesso, morte e potere, un disco più autobiografico del solito a voler dar retta alle sue dichiarazioni. Approntato col produttore Jack Antonoff e con dentro ospiti quali Kamasi Washington, Greg Leisz, Thomas Bartlett, Jenny Lewis, Rich Hinman e Tuck & Patti, il disco è un turbinio di melodie ineffabilmente pop, trame musicali a mezza via tra sintetico e calore umano, ritmi appiccicosi sempre pronti però a lasciare spazio al palesarsi d’accorate ballate venate di malinconia.
Dalla siderale Hang On Me alla filastroccosa e appiccicosa Pills, dalla princiana title-track alla propulsiva allucinazione electro-pop di Sugarboy, per non parlare della sintetica, ma al calor bianco Los Ageless, l’ascolto fa pensare che questo sia il più spudorato dei suoi album. In realtà, da Happy Birthday, Johnny in poi (voce, piano e pedal steel) prende piede un mood più elegiaco e sommesso, che rimane presente anche nella svettante Fear The Future o nella chitarristica e rock Young Lover: godetevi l’introspezione ariosa di Savior, una ballata degna di Sufjan Stevens come New York, la cameristica Slow Disco o la chiusa di Smoking Section per rendervene conto.
La Clarke è riuscita ancora una volta a mettere assieme una collezione di brani semplicemente memorabili, pop e godibili da chiunque, eppure per nulla effimeri o banali. Non siamo certo dalle parti del rock classico buscaderiano qui, ma ciò non toglie che St. Vincent sia sul serio una grandissima artista.