Foto: Lino Brunetti

In Concert

Wovenhand live a Milano, 21/5/2017

Sono le dieci in punto, giusto un quarto d’ora in ritardo sull’orario previsto, quando dalle casse prorompe un rullare di tamburi e un canto degli indiani d’America. Sul palco, parte degli amplificatori sono coperti da bandiere americane e non sai bene come intenderle, se come un attestato di appertenenza o se il bottino di qualche scorreria da film western. Anche l’asta del microfono è adornata con delle stoffe colorate, le quali concorrono a costruire un immaginario visivo ben preciso, poi accresciuto dal look a metà tra il cowboy urbano e il mezzosangue indiano con cui David Eugene Edwards si presenta sul palco, tutto in jeans, cappellaccio con piuma e crocifisso gigante in bella vista.

Non fa in tempo a spegnersi l’eco dei tamburi che la band va subito all’assalto degli ascoltatori con Hiss e, da qui in poi, ci saranno ben pochi momenti di respiro. Con Ewards ci sono gli stessi musicisti dell’ultimo album, Star Treatment, ovvero il chitarrista Chuck French, il bassista Neil Keener e il batterista Ordy Garrison. Si è detto da più parti che questa è la versione più violenta e distorta dei Wovenhand e c’è del vero in questa sentenza. French pare uscito da una band hardcore e come chitarrista non è certo uno che ricerca il tratteggio fine, lasciando a Edwards stesso il compito di pennellare le parti soliste, e prendendosi lui il compito di mantenere alto il livello di tensione elettrica, concorrendo inoltre ai cori come seconda voce. Più in vista la sezione ritmica, con un Garrison davvero portentoso e dinamico dietro ai tamburi e un Keener a dir poco squassante, visto che il suo basso viene usato, più che per delineare delle vere linee di basso, per apportare una continua e montante onda metallica, ai confini del doom, cosa che non poco ha caratterizzato il suono continuamente ronzante di tutta la band.

Il folk, sia pur sui generis, che fu dei Sixteen Horsepower e di buona parte della carriera dei Wovenhand, pare un lontano ricordo. Da tempo Edwards, dopo averne disseminato degli indizi a partire da Ten Stones del 2008, ha abbracciato un del tutto differente tipo di suono, più d’impatto, ancor più febbrile che in passato, in cui la dimensione mistica e spirituale rimane in evidenza, ma ora passa attraverso un rituale fatto di dolore, di violenza sonora, come se ci si trovasse di fronte ad un percorso di espiazione.

Nessun tuffo nel passato in questa serata, con una scaletta tutta basata sugli ultimi due dischi, unica eccezione la King O King sputata in chiusura, tratta dal disco subito precedente, The Laughing Stalk. David Eugene Edwards rimane un frontman naturalmente carismatico, spiritato, perso in chissà quale trascendentale visione. La sua voce svetta lirica e dona pathos a canzoni che si profilano come tempeste elettriche, anche quando al posto della chitarra imbraccia un bouzouki. Se un appunto si può fare è solo quello di trovarsi di fronte ad un monolite quasi inscalfibile, in cui le differenze fra i vari pezzi si assottigliano e diventa difficile distinguerne uno dall’altro. Ma è un problema di poco conto per il sottoscritto, perché il concerto, pezzo dopo pezzo, si profila come un unico flusso incessante, come una folgore epica che attraversa l’anima e scuote il corpo, come una staffilata di rumore che attraverso il ritmo si fa pulsante onda che spinge il pubblico a muoversi all’unisono, in una sorta di comunione collettiva.

Certo, bisogna sintonizzarsi su frequenze che sono diverse da quelle del passato, con suoni che ormai hanno più in comune con la visionarietà psichedelica e heavy di formazioni quali gli Om – vedi il delirio allucinatorio di un pezzo come Swaying Reed, per chi scrive uno degli apici della serata – o con un forma di rock messianico che inspessisce la lezione mai dimenticata di band come i Gun Club (tra le tante, The Hired Hand potrebbe essere un buon esempio), che non con le suggestioni folk che furono. Sotto tutto ciò, al di là delle apparenze, le intenzioni di David Eugene Edwards rimangono le stesse di sempre però, cosa che continua a renderlo uno dei musicisti di maggior culto della sua generazione, uno di quelli che non incontri tutti i giorni. Un grandissimo insomma. 

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