WILLIAM MICHAEL MORGAN
Vinyl
Warner Music Nashville
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William Michael Morgan, nuova sensazione del country americano di appena 23 anni, proveniente da Vicksburg, Mississippi, e qui al suo esordio sulla lunga distanza dopo l’omonimo extended di qualche mese fa, dice di aver capito cosa volesse fare da grande ascoltando la El Paso di Marty Robbins. Sarà, ma resto convinto del fatto che se nel mondo dei ventenni dediti al country avessimo davvero qualcuno in grado di ripescare l’ironia, la stropicciata umanità e la vena pittoresca di artisti come Robbins, senza invece limitarsi a ricalcarne in modo schematico, fino a stravolgerle in una specie di fumetto, le costanti di stile, allora avremmo meno dischi-giocattolo e sonorità meno infantili.
Intendiamoci, dentro Vinyl non c’è nulla di provvisorio o approssimativo; anzi, tutto sembra studiato e calibrato allo scopo di acchiappare, in un colpo solo, gli appassionati di materiale vintage (magari incuriositi dal twang anni ’50 di Lonesomeville) e i fanatici del cosiddetto bro-country (vellicati dai suoni mainstream e dai testi da quinta elementare di Beer Drinker o Somethin’ To Drink About), gli estimatori del vecchio George Jones (l’autocommiserazione di Cheap Cologne ne rappresenta una parodia tutto sommato accettabile) e il pubblico dei talent (per il quale la title-track può indicare un esempio facilmente digeribile di intreccio fra tradizione e ammiccamenti radiofonici).
Chissà, però, se ai suoi 38 minuti non avrebbe invece giovato proprio quel soffio di precarietà, quel senso di pericolo o di incrinatura incombente, a pieno titolo appartenuto non dico ai capolavori del genere, per esempio (appunto) il Gunfighter Ballads And Trail Songs (1959) dello stesso Robbins, ma anche solo ai loro epigoni più meritori? Impossibile saperlo, perché in mezzo alle undici canzoni di Vinyl non c’è un solo dettaglio fuori posto, non una sbavatura o uno slittamento di prospettiva, nessuna dissacrazione dei valori formali dell’ambito cui appartiene, bensì solo una costante imitazione dello stile elegante, adulto e privo di spigoli di George Strait, naturalmente tentata senza possedere un grammo della classe e del portamento di costui.
L’irruenza honky-tonk e la profonda voce baritonale della prima People Like Me fanno pensare per un attimo al contegno selvatico di Waylon Jennings, ma si tratta di un’illusione destinata a durare lo spazio di pochi minuti. Subito dopo, infatti, Vinyl si trasforma nel vizio di forma calligrafico e deliquescente di un novizio circondato da uno staff di mestieranti (nei soli crediti di scrittura si leggono ventotto nomi diversi) indaffaratissimi nell’omogeneizzarne, casomai ci fosse, la personalità. Col risultato di confezionare un prodotto anonimo, perfetto per i consumatori passivi benché inutile, o quasi, per chi alla musica è solito dedicare qualcosa in più d’una serie di ascolti distratti.