Il giornalista Ashley Kahn, oltre a collaborare con Mojo, Rolling Stone e il NY Times, è curatore, o estensore, di alcuni dei libri più interessanti fra quelli negli ultimi tempi dedicati alla storia del jazz, nonché delle note di copertina dell’ultima edizione di A Love Supreme. John Coltrane – la sua e nostra magnifica ossessione – è l’argomento delle domande che gli abbiamo rivolto.
Come tu stesso hai scritto nel volume A Love Supreme – Storia del capolavoro di John Coltrane (2002), con l’ultimo Coltrane siamo di fronte a registrazioni che «obbligano» ciascuno di noi a «riflettere sulla propria spiritualità». Però ci sono ancora critici secondo i quali – cito Geoff Dyer – questa fase del lavoro dell’artista sarebbe «catastrofica», e priva di qualsiasi vera risonanza spirituale. Qual è il tuo pensiero al riguardo?
Penso che purtroppo alcuni giornalisti non abbiano ancora imparato a separare la realtà dei fatti dalle proprie opinioni. Ora come ora, a quasi cinquant’anni di distanza dalla morte di Coltrane, ci sono ancora individui che trovano discutibili e, sì, «catastrofiche» le sue scelte creative. Personalmente, ritengo irrefutabili i traguardi artistici da lui raggiunti, e credo sarebbe opportuno ribadire come il suo modo di suonare e intendere il sassofono rappresenti l’influenza più evidente, oltre ogni ragionevole dubbio, nell’approccio allo strumento da parte dei musicisti contemporanei. Non solo, anche le sue idee in fatto di armonia continuano a essere, per chiunque voglia confrontarsi col concetto stesso di improvvisazione, un punto fermo.
Questo non è sufficiente a farci pensare che probabilmente sapesse con certezza cosa stava facendo nel 1965, nel ’66 o nel ’67? Che stesse elaborando con estrema consapevolezza un progetto rimasto inedito per cause di forza maggiore? Dyer è un ottimo scrittore e un vero appassionato, ma le sue prese di posizione sulla fase terminale della carriera di Coltrane riflettono una concezione preconcetta e fin troppo rigida di cos’è e cosa dovrebbe essere il jazz. Non mi interessano i preconcetti, li trovo pericolosi in politica e negli ambiti della cultura in genere. Richard Brody, sul New Yorker, ha scritto un ottimo pezzo in risposta a Dyer. Per Dyer la «tradizione» – il suo rispetto – è un elemento centrale, per Brody lo è altrettanto il superamento e la ricomposizione delle fisionomie tradizionali del jazz. Io abbraccio la visione del secondo.
Ritieni che il percorso compiuto da Coltrane dai concerti del 1957 al Five Spot, con Thelonious Monk, e dall’incisione del classico Kind Of Blue (1959), con Miles Davis, fino alle registrazioni di A Love Supreme, sia diviso in tappe? O piuttosto riconducibile a un’esplosione di creatività, a una nuova consapevolezza religiosa, alla “rinascita” fisica dopo anni di tossicodipendenza?
Tutte queste cose insieme. Ne parlo nel mio libro e l’ho scritto spesso nelle liner-notes delle ristampe per le quali ho offerto la mia supervisione. Coltrane è stato uno sperimentatore instancabile, ma non si è mai sbarazzato delle proprie intuizioni precedenti, né della tradizione del jazz. Malgrado lo stupore e il disorientamento degli ascoltatori intenti a chiedersi cosa fosse accaduto al morbido tenore di dieci anni prima, persino il Coltrane del ’66 e del ’67 – gli anni in cui diede vita alla musica più intensa e controversa della sua carriera – non ha mai smesso di rielaborare, perfezionare e integrare gli stimoli raccolti negli anni precedenti. Alcuni degli aspetti più disturbanti, diciamo così, nel suo modo di suonare il sassofono, per esempio il ricorso a soffi esagerati, o al contrario estremamente attenuati, sull’ancia, per ottenere note ogni volta penetranti, stridenti, oppure ancora la frequenza e la durata di certi assoli, possono essere ricondotti ai piccoli trucchetti appresi nell’epoca in cui, per sbarcare il lunario, si era trovato a gracchiare un po’ di blues per le strade e i bar di Philadelphia. Nella scaletta di A Love Supreme ci sono idee vecchie e nuove: nella musica di Coltrane, nulla veniva scartato o sconfessato.
Elvin Jones ha dichiarato di non aver mai ricevuto da Coltrane nessuna partitura, nessuna musica scritta.
Il processo creativo di Coltrane è sempre stato questo, arrivare in studio con qualche appunto relativo alle composizioni, e sulla base di questi cenni generici spingere se stesso e i propri musicisti a creare qualcosa sul momento. Un blues spontaneo (pensa alla Sweet Sapphire Blues del 1958) o un’improvvisazione radicale, come il duetto tra batteria e sassofono scaturito dalla collaborazione con Rashied Ali nel ’67. Alice Coltrane parla di questa etica professionale con Branford Marsalis, nel DVD in cui questi rilegge A Love Supreme, ma specifica anche come nel caso di quel disco il marito avesse messo per iscritto una scrupolosa pianificazione di tutti e quattro i movimenti della suite, lasciando supporre si tratti del disco in assoluto maggiormente “pre-prodotto” tra tutti quelli di Coltrane. Senz’altro nel jazz, non solo di Coltrane ma del secondo dopoguerra in genere, l’improvvisazione resta un fatto centrale: spesso Coltrane andava in assolo, e lo faceva anche per spronare le speculari improvvisazioni del suo collettivo. In A Love Supreme siamo di fronte a un caso di eccellenza individuale, dei singoli, è vero, ma se lo ricordiamo ancora oggi è soprattutto per la straordinaria libertà creativa di un gruppo di persone allenate a lasciar fluire ispirazione e talento.
Trovi l’articolo completo su Buscadero n. 384 / Dicembre 2015.