Libri & Cinema

L’orrore e l’autore: in ricordo di Wes Craven

Wes Craven (1939 – 2015)


«I film horror sono come un campo di addestramento per la psiche. Non creano paura, la rilasciano. Se fossi interessato alla realtà, avrei fatto documentari»: così rispondeva Wesley Earl “Wes” Craven, dimostrando una logica ferrea e in apparenza inconciliabile con gli incubi artigliati di Freddy Kruger, a chi gli chiedeva ragione di una fascinazione per il brivido, per gli spaventi e per la violenza durata quasi cinquant’anni di carriera.

Il regista, scomparso domenica 30 agosto, all’età di 76 anni, per un tumore al cervello, con quelle parole confermava anche l’adagio, scontato ma veritiero, secondo il quale un autore – un artista in grado di creare un universo espressivo autonomo e riconoscibile – parla sempre e soprattutto di se stesso, perché la paura, quella paura di continuo indagata, sviscerata, affrontata in mille modi e a viso aperto, era sempre stata, nei suoi film, non quella raccontata dalle sceneggiature, bensì la paura del cineasta stesso, in gioventù isolato dal mondo a causa della rigida formazione religiosa dei familiari (i genitori, anabattisti, gli impedivano di frequentare coetanei, leggere libri secolari, andare al cinema) e da allora in perenne contrasto col senso di colpa, la vergogna e l’incapacità di accettarsi assimilati nel frattempo.

Nato a Cleveland, Ohio, nell’estate del 1939, Craven si era emancipato dalla disciplina della famiglia e dall’esercizio punitivo della fede grazie agli studi umanistici compiuti tra l’Illinois e il Maryland, all’insegnamento e in ultimo al cinema, dove diceva di essere entrato per la prima volta a 23 anni, restando stregato dai film e dalla loro attitudine a tradurre il pensiero in immagini, a liberare il tormento interiore tramite la percezione ottica. Era rimasto colpito, in particolare, dai film del maestro svedese Ingmar Bergman, visti a New York durante le stagioni di docenza al Clarkson College, dei quali aveva amato la pulizia visiva, il rigore filosofico, il coraggio nello scandagliare le profondità dell’animo umano senza edulcorare gli aspetti più controversi del viaggio.

Spinto dalla nuova e divorante passione, si era così buttato nell’industria del cinema, debuttando come tecnico del suono e tuttofare nei processi di post-produzione; dopo qualche mese, inoltre, era già passato dietro la macchina da presa, per dirigere, sotto pseudonimo, dei porno fatti in serie, veloci e redditizi. Per esordire col proprio nome, aveva scelto di rifarsi all’amato Bergman: nel 1972, L’Ultima Casa A Sinistra (The Last House On The Left), costato la miseria di 87’000 dollari (procurati e amministrati dal futuro regista di Venerdì 13, Sean S. Cunningham) e girato nei boschi del Connecticut, prendeva spunto dal bergmaniano La Fontana Della Vergine (1960), conservandone il canovaccio basato su di un’antica ballata svedese (in cui una famiglia esercita la propria vendetta sui responsabili dello stupro e della morte della figlia, nel film di Craven “le” figlie) ma sfigurandone l’essenzialità in un’orgia di sadismo anti-spettacolare e realistica, oggi come ieri agghiacciante. Se i più attenti avevano già rinvenuto, nella pellicola, un’equazione dolorosa tra il puritanesimo della provincia americana e le parafilie sessuali dei maniaci violentatori, gli altri rimasero senza eccezioni sconvolti dal tasso di brutalità contenuto nelle immagini del film e reso ancor più disturbante dallo sguardo neutro e impassibile del regista. Respinto dalle commissioni censura di Australia e Regno Unito (dov’è stato proiettato, in forma integrale, solo nel 2008!), tagliuzzato e sforbiciato un po’ ovunque, il film guadagnò tuttavia più di 3 milioni di dollari sul solo territorio americano. Malgrado la gratificazione economica, le polemiche intorno all’opera furono talmente aspre e combattute che Craven riuscì a dirigere un nuovo film solo cinque anni dopo.

Anche Le Colline Hanno Gli Occhi (The Hills Have Eyes, 1977) era basato su un tema controverso (nel deserto californiano, un gruppo di selvaggi, forse incestuosi, sequestra ignari turisti per cannibalizzarli), ma se rispetto al predecessore non indugiava più di tanto in particolari sanguinolenti, ne amplificava però il messaggio politico mettendo in scena, con aggressiva efficacia, il disorientamento e il malessere di un’America danneggiata dal sospetto, dalla sopraffazione e dal rancore, con le sue famiglie (istruite o semi-analfabete, religiose o pagane) impegnate a massacrarsi a colpi di pietre e bastoni. L’anno dopo, il televisivo Stranger In Our House (conosciuto anche come Summer Of Fear), con una Linda Blair intenta a smarcarsi dalle possessioni demoniache per cui (nell’Esorcista di Friedkin) era diventata celebre e un Craven assai versato nel soffiare inquietudini occulte all’interno dell’ennesima ambientazione di provincia, confermava il talento del regista anche nell’illustrare soggetti deboli, o non proprio originalissimi, mentre il successivo, più riuscito, Benedizione Mortale (Deadly Blessing, 1981), con un delirante Ernest Borgnine nei panni del capo spirituale di una setta di esaltati e una giovanissima Sharon Stone protagonista, ne ribadiva l’interesse per il tema del fanatismo religioso, qui esplorato tra incubi di aracnofagia e misteriosi incidenti.

Nel 1982, coi soldi (neanche pochi) della Sony, Craven girava invece Il Mostro Della Palude (Swamp Thing), adattamento dell’omonimo fumetto creato dieci anni prima, per la DC Comics, dai testi di Len Wein e dalle matite di Bernie Wrightson, pellicola, questa, molto criticata per il registro oscillante senza autocontrollo tra squarci fiabeschi e accenni di casto erotismo, eppure diretta dal regista sposando con abilità, in diverse sequenze degne di nota per romanticismo e raffinatezza figurativa, sia lo spirito dolente del prototipo cartaceo sia la voglia di rivisitare con ironia sulfurea l’eterna parabola di Apuleio su Amore e Psiche. Il goffo e malriuscito Invito All’Inferno (Invitation To Hell, 1984), di nuovo realizzato per la tv e se non altro animato dalla volontà di demolire nel sangue alcuni miti di cartapesta – la forma fisica, le gerarchie aziendali, la sudditanza al denaro – del decennio del carrierismo rampante, preludeva poi all’iconico Nightmare – Dal Profondo Della Notte (A Nightmare On Elm Street, 1984), altro attacco frontale al retaggio perbenista degli Stati Uniti dove il «mostro» – il californiano Robert Englund nel ruolo, sfigurato, della vita – perseguitava in sogno i discendenti dei suoi antichi assassini (incarnando così la coscienza sporca, e freudianamente rimossa, di una nazione incapace di non inchiodare i propri figli alla custodia e alla ricerca di un Eden individualista mai esistito): solo il primo titolo di una franchise di enorme successo, moltiplicatasi in sei seguiti, una miniserie televisiva, un episodio a latere (Freddy Vs. Jason [2003], in cui le grinfie metalliche di Kruger lottavano, soccombendogli, contro il machete del Jason Vorhees di Venerdì 13) e un reboot (concepito nel 2010 e, a differenza di un altro «nuovo inizio», quello non malvagio delle Colline Hanno Gli Occhi firmato nel 2006 dal francese Alexandre Aja, inguardabile) in genere tutti prescindibili con l’eccezione di quelli negoziati dallo stesso Craven, ossia Nightmare 3 – I Guerrieri Del Sogno (A Nightmare On Elm Street 3: Dream Warriors, 1987), da lui co-sceneggiato in una smania di caustici paradossi, e l’affondo teorico di Nightmare – Nuovo Incubo (Wes Craven’s New Nightmare, 1994), vertiginosa riflessione metanarrativa, non di rado molto spassosa, sulla ricezione e la comprensione dei film horror in epoca contemporanea.

Giusto un anno dopo, un dittico di titoli insalvabili, e cioè il dilettantesco Sonno Di Ghiaccio (Chiller), sulle possibili degenerazioni della criogenesi (quindi, di nuovo, sull’ansia «conservatrice» di quegli anni), e l’atroce Le Colline Hanno Gli Occhi II (The Hills Have Eyes II), grottesco tentativo di mixare pazzoidi antropofagi, rozzi bikers e personaggi da filone adolescenziale, asseveravano la predisposizione, molto americana, di Craven al rimescolamento di materiali alti e bassi (peraltro, negli stessi mesi, meglio indagato negli episodi confezionati dal regista per la «ripartenza» del serial televisivo Ai Confini Della Realtà [The Twilight Zone]), al frequente ondeggiare tra ricerca e spazzatura, tra soluzioni sofisticate e sensazionalismo gratuito, atteggiamento talvolta disorientante e però quasi sempre in grado di lasciare addosso allo spettatore una sensazione di crudo e sincero malessere. Dati simili precedenti, stupiva, in Dovevi Essere Morta (Deadly Friend, 1986), la delicatezza di tocco nell’intrecciare la dimensione fantastica e quella sospirosa del romance in un ibrido singolare, nonché senz’altro influenzato dal coevo Starman (1984) carpenteriano, e lasciava ancor più a bocca aperta il furore sociologico del Serpente E L’Arcobaleno (The Serpent And The Rainbow, 1988), cruda, mefistofelica e urticante allegoria dei rapporti di forza capitalisti inscenata tra i non-morti e i cerimonieri voodoo di Haiti, con gli zombie nella parte dei proletari oppressi e i loro sacerdoti in quella della borghesia sprezzante. Uno dei migliori film di Craven, ancora in grande forma nei seguenti Sotto Shock (Shocker, 1989), raffinata (e visivamente travolgente) analisi mediologica sul consumo di immagini, e La Casa Nera (The People Under The Stairs, 1991), dolente parabola (ispirata alle tensioni etniche nella Los Angeles d’inizio decennio) sull’emarginazione e lo sfruttamento di un gruppo di ragazzi ridotti alla schiavitù, e in certi casi richiamati in vita dopo il trapasso, da una coppia di depravati razzisti (pessimo, per contro, l’interlocutorio Delitti In Forma Di Stella [Night Visions, 1990], quasi una parodia dei romanzi di Thomas Harris).

Nelle stagioni successive, otteneva grande riscontro, grazie anche all’arguzia della sceneggiatura di Kevin Williamson, l’operazione metafilmica di Scream – Chi Urla Muore (Scream, 1996), (auto)osservazione dei luoghi comuni del cinema horror e manifestazione pratica della loro intatta efficienza diretta da Craven in tono beffardo e citazionista, ma all’occorrenza capace di sferrare ancora colpi allo stomaco di una certa ferocia. Tutti girati dallo stesso Craven, i tre sequel del prototipo (decente il secondo [1997], inutile il terzo [2000] e quasi buono il quarto [2011], forse, dopo il capostipite, il più riuscito) annacquavano progressivamente le intuizioni del primo capitolo in una discesa convenzionale verso il thriller, e risentivano, d’altronde, del logoramento dello sguardo del regista, dai ’90 in poi un po’ spaesato in un panorama richiedente sangue in dosi sempre maggiori e perciò, avendo già esaurito i propri discorsi in merito all’aspetto grafico della violenza più di vent’anni prima, costretto a peregrinare tra ambientazioni, atmosfere e scenari di segno diverso senza azzeccarne più uno.

Sia l’istrionismo (sprecato) di Eddie Murphy in Vampiro A Brooklyn (Vampire In Brooklyn, 1995), incursione in un campo – l’horror in forma di commedia – dove solo John Landis e pochi altri sono riusciti a conseguire risultati apprezzabili, sia il travagliato Cursed – Il Maleficio (Cursed, 2005), con la sua storia di licantropia in salsa giovanilista finanziata e pesantemente manipolata dalla Dimension Films, sia il modestissimo La Musica Del Cuore (Music Of The Heart, 1999), con Meryl Streep a destreggiarsi tra violino e didattica (l’unica esperienza del regista, assieme al frammento, contenuto nel collettivo Paris, Je T’Aime [2006], Père-Lachaise, dove pure appariva un «fantasma», sì, ma quello di Oscar Wilde, al di fuori dei territori del brivido), sia l’orribile Red Eye (2005), mostravano un cineasta ormai a corto di argomenti e visioni, entrambi, purtroppo, del tutto annullati nel penultimo, penoso My Soul To Take – Il Cacciatore Di Anime (2010).

Nonostante la modestia dei lavori recenti e l’insorgere della malattia, Craven non aveva però smesso di progettare film, o di tuffarsi con entusiasmo in altri campi, dal fumetto all’ornitologia (!). Lo ricordiamo, qui, come il regista della paura trasformata in seduta terapeutica, in trattamento senza sconti dell’interiorità onirica (e insanguinata) della propria nazione: tra grandi pellicole e tonfi spettacolari, ci ha raccontato e ricordato di come la vita, anche e soprattutto la propria, preclusa alla visione (l’immagine deturpata del volto di Freddy Kruger era nata, nella mente del Craven bambino, quando questi, al solito segregato in casa dalla madre iperprotettiva, aveva visto per la prima volta, dalla finestra della camera, all’esterno, le fattezze di uno sconosciuto passante) e in seguito dedicata al crearne di indimenticabili, possa di volta in volta entrare – violentata, abusata, martellata, scioccata – nel quadro del cinema. E grazie al cinema, in certi casi più grande e vero della vita stessa, trovare una salvezza.

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