KEITH RICHARDS
Crosseyed Heart
Virgin
***½
È difficile essere imparziali davanti a Keith Richards, lui è l’immagine e il senso del rock n’roll, il pirata di mille avventure, il diavolo ai crossroads, l’uomo che col suo corpo e le sue abitudini ha messo in crisi la medicina ufficiale, il creatore di riff immortali, la faccia sporca di una musica che se fosse stato per i Beatles sarebbe ora in un museo e morta lì. Keith Richards è il rock n’roll, punto e a capo. Ma i suoi dischi solisti non sono la consacrazione di quella musica, per questo è bene rivolgersi ai Rolling Stones, piuttosto è un periodo di vacanza che ogni tanto, nei momenti di ibernazione della band, il Sig. Richards si prende per assecondare la propria voglia di musica in libertà, senza pressioni, scadenze, limiti, doveri. Senza Mick Jagger. Una pausa di relax, nessun intralcio coi piani della band, piuttosto sfruttare i momenti morti per suonare con amici di vecchi data una serie di canzoni che potrebbero, sparse, stare benissimo nei dischi degli Stones se non fosse che i musicisti che lo circondano sono diversi.
Erano ventitré anni che Richards non faceva un disco a suo nome, quel Main Offender realizzato con lo stesso produttore, Steve Jordan e gli stessi musicisti, gli X-Pensive Winos con cui aveva tre anni prima risposto alle ambizioni soliste di Jagger dando alle stampe Talk Is Cheap, primo suo disco, il migliore dei due realizzati al tempo. Crosseyed Heart non nasce in un momento di crisi della band e nel clima di competizione dei due leader, è solo una passeggiata ai margini del bosco con i vecchi amici del vino costoso, il batterista Steve Jordan, il chitarrista Waddy Wachtel, il tastierista e cantante Ivan Neville, la cantante Sarah Dash, più alcuni tipi del team Stones come Bernard Fowler e Blondie Chaplin (ma in due brani c’è anche il sax del compianto Bobby Keys) e invitati speciali come Norah Jones, incantevole voce in Illusion, il bassista Pino Palladino, il tastierista dei Muscle Shoals Spooner Oldham e Larry Campbell con la lap steel.
Richards ha cominciato a buttare giù i brani di Crosseyed Heart fin dal 2007 senza fretta e necessità di portarlo a termine in tempi studiati, registrando di volta in volta con Jordan (co-produttore) e mettendo insieme il tutto con molto disincanto. Il risultato è un disco a tratti sfilacciato e simpaticamente arruffato, distante dalla perfezione imposta da Jagger negli Stones, un disco che da una parte riflette gli amori in campo musicale di Richards, dal blues di Robert Johnson al reggae, dal soul di Memphis al folk di Leadbelly, dal rock n’roll alle ballate, e dall’altra ribadisce un’attitudine e un modo di suonare che sono tipici di Richards, un aplomb che si traduce in un suono spontaneo, quasi improvvisato, come se uscisse da delle prove in cui si lasciano andare le cose come vengono, un ensemble sonoro distante da qualsiasi efficientismo tecnico, qualcosa che apparentemente sembra nascere lì per caso quando i musicisti si ritrovano al momento giusto sulla nota giusta. Sappiamo che non è proprio così anche se il disco trasmette questa disinvoltura, comprese alcune fragilità che sono abituali nei dischi di Richards, voce stentorea, canzoni che traballano dietro un ritmo e non si capisce come possano essere state messe in un disco di un nome così importante. Ma è stato così anche nei due dischi precedenti, traballanti ma vivi e pulsanti di amore verso la musica autentica, la musica del passato, anche quando la voce di Keith Richards sembra sul procinto di essere inghiottita dal sonno e scomparire.
É proprio questo atteggiamento di basso profilo e nonchalance, lo stesso che Richards mantiene nelle interviste con frasi che paiono il farfugliare di uno che si è appena fumato una canna (d’altro canto non nega che ancora oggi, ripulito da eroina e cocaina, una canna al mattino se la fa volentieri), a rendere affascinante e caldo Crosseyed Heart, un disco che si ama perché, con tutti i mezzi a disposizione, suona nel sottoscala del blues e del rock. E del country, una vecchia passione di Mr.Richards, dai tempi di Nellcote e dell’amicizia con Gram Parsons. «E’ un’area che non sempre è possibile praticare con gli Stones, mi pace quella malinconia, quello struggimento, i cuori infranti degli Everly Brothers».
E allora sono proprio le ballate le cose migliori di Crosseyed Heart, pallide, esangui, malinconiche, terribilmente umane. Se ne ha un assaggio subito al quarto pezzo con Robbed Blind, una ballata dolente, nostalgica, affettuosa, col piano (lo stesso Richards) e la lap steel di Larry Campbell, e un tocco di chitarra messicana che si infila in una cantina del border come avrebbe potuto fare il ciondolante Hank Williams o il gitano DeVille. Nothing On Me è appena un pò più mossa, qui la chitarra elettrica tiene un giro ripetuto dall’inizio alla fine attorno al quale Richards canta con una voce chiara e convincente creando il pathos di una classica ballata rock. Al contrario Suspicious è un sussurro di soul notturno che sa di Al Green e trasmette un’atmosfera misteriosa e dubbiosa, si fa sentire il Farfisa di David Paick, la chitarra di Waddy Wachtel e la voce femminile di Megan Voss, Keith Richards suona di tutto compreso il sitar ed è magnifico. Una delle tracce che darà lustro al disco è Illusion, ballata lenta e carezzevole che pare tratta dal Lou Reed di Coney Island Baby ma la voce sensuale di Norah Jones trasforma in una sorta di romantico duetto tra innamorati. Just A Gift sembra la continuazione della precedente se non fosse ancor più fragile e arrendevole e Lover’s Plea è la supplica di un amante in ginocchio, arrangiata con l’Hammond di Spooner Oldham e una sezione di fiati che viene dal Sud.
La prima cover del disco è Goodnight Irene la celebre e popolare canzone di Leadbelly che Richards rivisita con dolcezza e sublime trasandatezza, come se Dylan e Hank Williams uscissero da una bettola dopo una bevuta. Una canzone che è sempre piaciuta a Richards, ne ha voluto dare una versione fedele alle liriche originali dove si cantava «I take morphine and die», completamente in antitesi con «quelle brutte ed edulcorate interpretazioni che sono state fatte dopo, come quella del Kingston Trio». Se queste sono le ballate, per il blues non c’è bisogno di aspettare. Il disco parte difatti con la tremolante Crosseyed Hearts, un breve assaggio di country-blues prebellico da 78 giri dove è facile scorgere Robert Johnson, prima che Heartstopper riporti Richards sulla strada di quelle composizioni che hanno come modello base Happy, ovvero ritmica sostenuta, riff e rumori elettrici, voce che insegue, adrenalina. Un dinamismo che viene ripetuto in Amnesia, sporca, sincopata e nervosa, con un colpo da maestro di Bobby Keys col sax baritono e Richards in cattedra con le sue corde, e in Trouble, sferragliare alla Stones (Richards più Wachtel copia di Richards più Wood) e drumming sostenuto (Steve Jordan).
Substantial Damage è un altro esercizio di muscoli, duro, martellante, un voodoo industriale di chitarre assatanate mentre Blues In The Morning è tutta nel titolo. Keith canta come se fosse stato sveglio tutta la notte e più che il caffè della mattina si stia gustando l’ennesima sorsata di bourbon. Vale un intero disco di blues. Ammesso e concesso che a Richards piaccia il reggae, il suo passato lo documenta, a partire dallo stesso Main Offender e dall’amicizia con Jimmy Cliff ma la seconda cover, Love Overdue, sembrano i Caraibi portati nell’East End londinese. Più che Gregory Isaacs si sentono gli UB40. É comunque un’altra cartolina dell’ampio mondo musicale caro a Keith Richards, che in Crosseyed Heart si diverte a girovagare in libertà senza passaporto e regole da rispettare, col solo intento di soddisfare la sua sensibilità musicale, il suo groove e il suo, e nostro, sentire. Crosseyed Heart è un disco libero, non è un disco degli Stones ma nemmeno di Mick Jagger. E questo basta per far capire che qui l’unica tendenza o modernità è il cuore del vecchio pirata.