JANIS
di Amy J. Berg
Era apparsa quasi improvvisamente nel nostro mondo di appassionati in continua “agitazione conoscitiva e gustativa” – panorama cultural-musicale diviso e miscelato fra rock, blues, soul e altro, nei loro diversi colori e sfumatura -, con un album già singolare e intrigante nella copertina dal taglio fumettistico (il grande Robert Crumb): Cheap Thrills. Avrebbe anche potuto finire sommersa dalla valanga di talenti e loro vinili sfornati senza tregua in quegli anni, che sembrava non aver fine e confini, col rischio di soffocare sul nascere promesse in erba (beh, anche “quella roba” faceva parte dello show), e ha comunque pagato salato. Tanto più che la Joplin, oltre ad essere una “ragazza di provincia” (chissà se è un termine giusto, riferito alla cittadina di Port Arthur, Texas), calata in un clima prevalentemente maschile e maschilista – a casa era un “brutto anatroccolo”, sbeffeggiata dai coetanei -, era “solo” cantante, quando in maggioranza i leader erano pure strumentisti, prevalentemente chitarristi. Si alza in volo dopo il suo arrivo a San Francisco, città dal clima artistico di ben altri orizzonti, anche “psichedelici”.
Janis è scritto e diretto da Amy J. Berg (ci ha lavorato per diversi anni), ed è strutturato con l’alternanza di riprese, fra esibizioni live, interviste – soprattutto alla sorella e al fratello, ad alcuni dei musicisti della sua band, nonché a produttori e diversi altri interpreti, tra cui Country Joe McDonald -, spesso amare, a volte scintillanti, dissacratorie, ma pure tenere, gioiose e umoristiche, come nello scambio di battute con Jerry Garcia e altri Dead.
Rock e musica nera dicevamo. Buona parte del suo repertorio più famoso – Ball and Chain, Piece of My Heart, Cry Baby, Try, Maybe, Tell Mama, Get It While You Can e altro -, è segnata dallo stretto legame con gli interpreti blues, soul e altro. E certamente la sua “appartenenza stilistica”, la voce e il coinvolgimento psico-fisico, ne sono pregni e semmai venisse qualche dubbio, bastano le sue dichiarazioni-citazioni: “…Bessie Smith, Billie Holiday, Otis Redding (il quale appare in un frammento di Monterey, e lei in un’intervista: «Otis? My man!…»), sono alcuni degli interpreti per i quali esprime grande stima. E ancora: il suo urlo, “disperato, implorante, anche gioioso”, ha quelle radici espressive. Ma in definitiva ciò che importa, come sempre, non è l’etichettatura stilistica, bensì la sua forza comunicativa, il suo donarsi tutta a chi ascolta.
Un docu-film, con diverse immagini inedite, anche da piccola e ragazzina, presentato al festival di Venezia, che pur non potendo seguirla in ogni concerto al di là di quelli classici – ci sono spezzoni presi dallo storico (!) “International Pop Festival” di Monterey (’67), in cui si rivelò a un vasto pubblico, e naturalmente dal più imponente “Woodstock” -, trasmette l’essenza e l’urgenza interpretative in varie, significative occasioni, intercalate dalle sue lettere (la cui lettura è affidata a Cat Power), e dalle sue tormentate relazioni sentimentali. Quando il filmato sta per volgere al termine arriva anche la magnifica Me and Bobby McGee – pubblicata dopo la tragica morte per overdose in un hotel di Hollywood il 4 ottobre 1970, ventisettenne -, e Kris Kristofferson ne loda affettuosamente la versione. Scorrono i titoli di coda accompagnati da qualche clip, compreso un breve intervento, rivolto al ricordo di lei, di John Lennon e Yoko Ono. JJ forever!